mercoledì 22 giugno 2011

Rileggendo Murakami: Tutti i figli di Dio danzano

Rileggendo questo libro, edito alcuni anni fa e uscito in Italia per Einaudi, sono tornata con la mente al terremoto dell' 11 marzo avvenuto in Giappone. Tutti i figli di Dio danzano è una raccolta di racconti, sullo sfondo il terremoto che ha colpito Kobe nel 1995. Le immagini di quello che è accaduto, il terrore della gente, le lacrime che silenziose scivolano sui volti di coloro che hanno perso i propri cari, vengono descritte da Murakami con astuta eleganza, con tono pacato e con un senso del rispetto difficile da spiegare.



I racconti si susseguono e il lettore raggiunge l'ultima pagina senza neppure accorgersene. La raccolta si apre con un racconto mistico, un uomo viene improvvisamente lasciato dalla moglie, la quale scrive un biglietto che lascia poco spazio all'immaginazione: "non ho intenzione di ritornare mai più" e poi ancora "vivere accanto a te è come avere al proprio fianco una bolla d'aria". Queste parola sono pietre scagliate contro un uomo che affronta la disperazione di un lutto (ogni storia che finisce è come un lutto, ognuno perde qualcosa, anche se in modo differente) seguendo il consiglio di un collega: una settimana di vacanza in un'altra regione per consegnare un pacchetto prezioso alla sorella. Il secondo racconto narra di un uomo, Miyake, che ha trovato il contatto con il suo essere attraverso i falò. Ma in realtà quello che lui cerca sembrerebbe proprio la morte, come il protagonista di quel racconto di Jack London, dal titolo Farsi un fuoco, tanto caro a Miyake e alla sua migliore amica Junko. Insieme infatti decideranno di morire. La morte torna in uno dei racconti centrali, Thailandia. Satsuki, una donna in carriera, cerca di staccare la spina facendo un viaggio in Thailandia. Per tutta la durata della vacanza sarà seguito da Nimit, una guida turistica che presto si rivelerà una giuda spirituale. Nimit infatti accompagna Satsuki da una signora anziana che vive in un villaggio povero, circondato da campi di riso a terrazze e animali magri. Il luogo sembra surreale così come le parole dell'anziana signora. Una specie di "divinazione", concluderà Satsuki ma Nimit le chiarisce le idee: quello che voleva dire la signora è che non serve investire troppe energie nel vivere, ci si deve preparare anche alla morte, "in un certo senso vivere e morire si equivalgono".

 La magia che scaturisce dalla penna di Murakami travolge chiunque si accosti ai suoi romanzi. Traspare poesia, misticismo, amore. Murakami riesce a rendere ogni racconto, con perfetta maestria,  un momento di riflessione anche per coloro che sono digiuni di cultura giapponese. Della sua nazione viene dipinto un quadro ricco di dettagli che aiutano a capire la mentalità dei giapponesi. Non ci sono fronzoli letterari, la scrittura è lineare ma efficace, il narrare un modo delicato di entrare nel mondo reale, quasi in punta di piedi sapendo però di avere tanto da dire.

giovedì 16 giugno 2011

Aleph... Come fu che il cagnolino rise

Ho scoperto un programma radiofonico molto interessante. Si parla di libri, si parla di proposte letterarie, si spazia dallo scrittore affermato all'esordiente. Me la sono proprio goduta mentre lo ascoltavo, perché si tratta di letteratura pura! E poi il titolo del programma mi piace da morire: Aleph... come fu che il cagnolino rise

Se vi interessa di seguito alcuni link utili:

http://www.radiomeridiano12.com

http://comefucheilcagnolinorise.blogspot.com/

mercoledì 15 giugno 2011

Truffa allo Stato: meglio il carcere della vita

Sono stanca di questa persone che tentano di fregarti idee e progetti, di intromettersi nella tua vita lavorativa, di ledere le tue conquiste, seppur piccole ma che, giorno dopo giorno, sono servite a costruire quello che ora hai in mano, quello che ti circonda, quello che vedi e che puoi toccare con mano.

Sono stanca di queste persone meschine, che trascorrono la giornata pensando di fregarti.
Le considero persone che non hanno progetti, che non hanno ambizioni, che non sognano. Questa è la cosa più triste di tutte. Trovarsi a contatto con persone che non sognano, impegnate a scavare nelle vite altrui con il solo scopo di agguantare, attraverso l'imbroglio, quanto più possibile. Tutto ciò mi deprime, mi fa sentire impotente di fronte ad una situazione che pare aggravarsi sempre più.

Si va dai manager falliti ormai pieni di debiti, ai consulenti a partita iva che fatturano sessanta giornate di lavoro su progetti che ne richiedono venti effetivi, per non parlare della segretaria single, sfruttata e seviziata (in ogni modo possibile) dal direttore oppure del giornalista pubblicista che ancora vive con mamma, gestisce una piccola rivista sul web e si atteggia, con suoi dipendenti (che manco paga) e che sono molto più giovani di lui, a grande esperto di giornalismo e dell'ambiente editoriale.

Mi chiedo quando, queste persone, hanno smesso di sognare, quando si sono dette che non avevano più nulla da perdere, che potevano persino permettersi di finire in carcere perchè tanto sarebbe stato molto più fico della misera e squallida vita che stanno conducendo adesso. Quando ha avuto inizio tutto questo?

Ho avuto modo di parlare con persone che preferiscono truffare (meglio omettere chi) pur di trovare una soluzione ai loro problemi, all'abisso nel quale sta precipitando la loro vita. Hanno lo sguardo spento, smarrito, ti guardano ma in realtà non ti vedono, non ascoltano quello che gli altri dicono e forse non sono neppure in grado di ascoltare se stessi. Queste stesse persone parlano delle loro prossime truffe come fossero progetti. Sorridono mentre raccontano del loro futuro.

giovedì 2 giugno 2011

Rileggendo Annie Ernaux: Non sono più uscita dalla mia notte


Ci sono libri che toccano corde talmente profonde del nostro io da non riuscire a comprenderle fino in fondo. Questo è uno di quei libri. Non sono più uscita dalla mia notte di Annie Ernaux si insinua nelle pieghe della memoria, là dove i ricordi si fanno opachi e il dolore sussurra, senza mai gridare. Ernaux ci accompagna in un viaggio silenzioso, costellato di immagini frammentate, come polvere che si deposita su vecchie fotografie. Il linguaggio è asciutto, quasi chirurgico, eppure ogni parola sembra custodire un abisso di emozioni represse. Non c’è spazio per l’oblio: ogni pagina ci riporta al centro di quel vuoto che la malattia e la perdita scavano, lasciandoci senza fiato. La sua scrittura non offre consolazione, ma un confronto diretto con ciò che resta, con ciò che siamo quando il mondo intorno a noi crolla. E, alla fine, ci ritroviamo a guardare la nostra fragilità con occhi nuovi, ancora incerti, ma più consapevoli.


 “Alla fine dell’85 ho iniziato a raccontare la sua vita: con un senso di colpa, poiché avevo l'impressione di essere già entrata in un'epoca di cui lei non faceva più parte. Inoltre, ero dilaniata fra una realtà evocata nella scrittura in cui me immaginavo da giovane, appena entrata nel mondo, e quel presente fatto di visite in ospedale che mi riportava al suo declino inesorabile. 

Alla morte di mia madre, ho stracciato quell'inizio di racconto e ne ho cominciato un altro che è stato pubblicato ne 1998: Une femme. Per tutto il periodo in cui ne completavo la stesura non ho mai riletto le pagine che ho redatto durante la sua malattia.

Era come se mi fossero precluse, vietate: avevo consegnato a esse la cronaca di quei mesi, di quei giorni, senza sapere che sarebbero stati gli ultimi della sua vita. L'inconsapevolezza del futuro — forse tipica di ogni scrittura, senz'altro tipica della mia — assumeva così un aspetto terribile. In un certo senso il diario di quelle visite mi aveva condotto verso la morte di mia madre”.