Siamo nel 1977 e Antonietta Pastore vive già da due mesi in Giappone. Ha conosciuto in Europa colui che è diventato il marito, giapponese di origine, con il quale ha vissuto prima a Parigi "un'esistenza precaria ma spensierata" durata ben sette anni. Quando l'insoddisfazione ha iniziato a farsi sentire, i due coniugi hanno maturato l'idea di trasferirsi nel paese natale del marito, più precisamente a Itami, a nord-ovest di Osaka. I primi mesi rappresentano per Antonietta Pastore un momento di conoscenza nei confronti del luogo che la circonda. Consultando cartine e orientandosi grazie ai pochi ideogrammi imparati, prende treni e autobus, spingendosi così a Kobe.
Antonietta è inizialmente affascinata dalla grazia delle donne, l'eleganza che caratterizza ogni loro movimento, ogni piccolo gesto anche il più banale come scartare una caramella o riempire un bicchiere d'acqua. Al contrario lei si sente goffa, ridicola per la spontaneità che dipinge i suoi movimenti, conseguenza di un'educazione avvenuta in Europa.
E la fascinazione continua, anche se si alterna a momenti di scetticismo dovuti all'incomprensione della cultura giapponese ad esempio, quando, con alcuni colleghi di lavoro, trascorre un fine settimana in montagna: altoparlanti che scandiscono i vari momenti della giornata, stanze dove uomini e donne dormono insieme sui futon disponendo i materassi in cerchio, con le teste al centro, saké e birra a volontà.
Vivendo sempre di più la quotidianità, Antonietta ha come la sensazione che la troppa compostezza delle persone e la rigidità delle regole di vita mettano un freno alla spontaneità e quindi all'onestà dei rapporti interpersonali. L'autrice racconta infatti della difficoltà nel creare rapporti sinceri, nel capire che cosa davvero passa per la mente del suo interlocutore. La chiusura è ciò che non riesce più a sopportare. Di conseguenza anche il modo di guardare la terra nella quali vive inizia a mutare: la bellezza e la raffinatezza lasciano il posto a tutto ciò che di kitsch si trova in Giappone, alle imitazioni delle metropoli occidentali, all'eccessivo frastuono, al disordine. E su questo sfondo, si fanno sentire l'arretratezza di certi aspetti culturali: l'episodio del matrimonio combinato tra due giovani ragazzi, sotto l'occhio incredulo di Antonietta, ne è l'esempio. Per questo l'autrice arriva a chiedersi dove si nascondano quei sentimenti folli, quel turbine di passioni, quelle emozioni che agitano gli animi dei personaggi della letteratura giapponese decantati nei libri di Soseki, Tanizaki e Kawabata.
Dovranno trascorrere ancora parecchi anni, Antonietta dovrà attendere gli inizi del 1980 per pulire la sua anima dai preconcetti e dagli stereotipi con i quali si è soliti guardare un paese che non è il proprio. Questo processo di liberalizzazione della mente e dello spirito dai pregiudizi è lungo ma, grazie all'apertura mentale dell'autrice e ad una certa disposizione della sua anima, Antonietta riuscirà a capire fino in fondo il paese in cui vive, adattandosi ma senza per questo subire la cultura nipponica, vivendo con serenità, consapevole del fatto che il Giappone non è l'occidente. L'integrazione avverrà anche grazie ad alcune conoscenze femminili che l'aiuteranno meglio in questo percorso.
Come dicevo all'inizio, Leggero il passo sui tatami, non è solo l'autobiografia di una donna occidentale che ha vissuto per anni in Giappone, ma è soprattutto il percorso esistenziale, il viaggio di integrazione che vede protagonista l'anima e la mente di questa donna prima ancora della sua persona fisica. La scrittrice (e traduttrice) scoprirà che ciò che reputiamo universale in realtà è molto relativo e circostanziato alla cultura nella quale siamo cresciuti. Capire questo concetto e fare un balzo in avanti nel momento in cui ci si trova in una terra lontana dalla nostra è un pregio non comune. E di questo Antonietta Pastore ne ha dato testimonianza.
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