venerdì 30 settembre 2011

Il Surrealismo Pop di Kukula e Natalie Shau

Un quadro di Kukula

In occasione della mostra presso Corey Helford Gallery, a pochi chilometri dalla città di Culver City  in California (la galleria sarà aperta tutti i giorni dal 24 settembre fino al 15 ottobre), è interessante porre l'attenzione sulle due artiste pop surrealiste che esporranno le loro opere: si tratta di Nataly  Abramovitch, in arte Kukula, e Natalie Shau.

Kukula non è nuova alla Corey Helford Gallery. Già presente nel 2009, l'artista pop surrealista torna sulla scena con una ventina di quadri che lasceranno senza fiato il pubblico internazionale. Kukula  ha origini israeliane: cresciuta in piccolo borgo vicino a Tel Aviv, fin da piccola ha respirato la disperazione, il trauma e il dolore dell'olocausto per non parlare delle continue e quotidiane tensioni tra israeliani e palestinesi. Le opere di Kukula sono permeate da un'atmosfera cupa, a tratti inquietante, che affonda le radici nell'infanzia e nel passato di questa artista.

Un quadro di Kukula
Eppure Kukula riesce a rielaborare lo shock dell'olocausto, vissuto attraverso le testimonianze degli anziani del villaggio, creando un mondo onirico e sfuggente, un paesaggio surreale e immaginifico, un luogo dove crudeltà e dolcezza possono convivere. Come si può notare dai suoi dipinti ad olio, Kukula restituisce al pop surrealism quel simbolismo mitico e atavico misto alla storia più recente di un popolo, quello ebraico, e di molte altre nazioni. 

Le bambine rappresentate da Kukula (elemento preponderante della sua arte) hanno il corpo graffiato, lo sguardo assente e malinconico. Le protagoniste dei suoi quadri giocano con animali fiabeschi (chiaro rimando alla letteratura classica) trasformati ben presto in compagni di giochi sanguinari. Kukula ha esposto anche in Italia, alla Dorothy Circus Gallery di Roma, dal 17 giugno al 25 luglio dello scorso anno, riscuotendo grande interesse nel pubblico.

Alla Corey Helford Gallery, l'elemento di novità delle opere di Kukula risente dell'influenza che l'artista ha subìto in seguito a suo recente soggiorno a Palazzo Versailles: Kukula ha voluto rappresentato la bellezza degli oggetti preziosi di cui si circondano queste bambine per sfuggire alla bruttezza della realtà. Idealizzando questi oggetti, anche le bambine finiscono per fondersi con essi diventando a loro volta soprammobili. Rifugiandosi dal mondo esterno nel loro palazzo pomposo o nei guardini lussureggianti, le bambine di Kukula non fanno altro che affondare, sempre di più, nell'abisso della solitudine e della spersonalizzazione.

La galleria ospiterà anche l'artista pop surrealista Natalie Shau, che presenterà una mostra dal titolo Time Stood Still: una decina di opere dove il lavoro digitale, la fotografia e il fotocollages si unirà a quello tradizionale caratterizzato dall'illustrazione e la pittura. 

Natalie Shau, originaria di Vilnius (Lituania), è esperta d'arte digitale ma non disdegna la pittura classica così come la letteratura. Infatti la stessa artista ha più volte espresso la sua preferenza per autori come Dostoevsky, Edgar Allan Poe e Gogol ma soprattutto le atmosfere che emergono dai loro romanzi: malessere, solitudine, alienazione, spersonalizzazione così come ambientazioni dai contorni sfumati e poco definiti. Il pop surrealism di Natalie Shau si esprime attraverso colori pastello e tinte tenui, ragazzine diafane, vestite con abiti vaporosi, bambine dalla bellezza eterea e misteriosa a tratti dark e noir. Accanto alle tinte pastello troviamo due colori che invece balzano all'occhio dell'osservatore: il rosso e il nero, come ad evocare il sangue e la morte.  

Nelle opere esposte alla  Corey Helford Gallery (dove tutti i quadri sembrano risentire delle influenze di altri artisti pop surrealisti come Ryden),  Natalie Shau ha voluto imprimere la bellezza di un momento, catturare la meraviglia che dura un attimo e che svanisce nel silenzio della quotidianità. L'atmosfera è grigia e indefinita ma terribilmente affascinante, così come tutta la mostra in sé. 

giovedì 29 settembre 2011

Sensualità e maliziosa dolcezza nelle opere di Danni Shinya Luo in mostra a MondoPop Roma

Che il pop surrealism sia un flusso immaginifico, l'inconscio e la libertà nelle loro forme più pure, la fantasia sapientemente rielaborata, un modo che l'artista ha per raccontare altri piani del reale, per svelarsi agli occhi dell'osservatore è cosa nota. Anche se è sempre più difficile, come si è più volte detto, cercare di categorizzare una corrente artistica così mutevole e vulnerabile. 

MondoPop Roma ha da poco inaugurato una mostra tutta al femminile che prende il nome di "Rock’n’Dolls", ritmi elettrici e incalzanti entrano in contatto con la storia e i segreti che celano le bambole creepy. MondoPop Roma ha voluto fare ancora di più con una mostra interamente dedicata alle opere di Danni Shinya Luo, una delle voci più interessanti del pop surrealism internazionale. Dal 22 ottobre al 3 dicembre si potranno ammirare le opere di quest'artista cinese. 

Danni Shinya Luo nel 1995 si trasferì a Los Angeles, dove vive attualmente,  dopo aver svolto un lungo apprendistato presso colui che è considerato il maestro dell'acquerello in Cina e non solo, Ding Ha. Egli  incarna l'artista per eccellenza alla ricerca di uno stile perfetto a metà tra classico e moderno, tra oriente e occidente, tra accademia e folclore popolare. Ding Ha ha trasmesso tutto ciò alla sua allieva, Danni Shinya Luo la quale ha rielaborato il sapere del maestro mescolandolo con forme artistiche preponderanti nell'underground californiano.

Come si può vedere nelle immagini accanto, l'arte di Danni Shinya Luo si esprime attraverso la pittura ad acquerello di personaggi femminili, donne sensuali e desiderabili raccontate come delle Pin-up che stregano l'osservatore con il loro sguardo ammaliante e le movenze maliziose. Tuttavia l'atmosfera sembra attingere ad un mondo dove l'innocenza e il gioco amoroso sono fondamentali caratteristiche dell'identità femminile dei personaggi. 
Come il suo maestro, Danni Shinya Luo ha dichiarato di ammirare la pittura classica di Alphonse Mucha (artista praghese, fu una delle voci rappresentative dell'Art Nouveau) e di Jan Van Eyck (pittore fiammingo, vissuto tra il '300 e il '400, che analizzò con estrema lucidità e realismo la realtà che lo circondò).

Nelle sue opere la maternità è dipinta come esibizione e mistero, istinto ed esperienza,  consapevolezza ma anche innocenza, quella stessa innocenza che si intravede negli occhi grandi e talvolta supplichevoli delle ragazze dipinte da questa straordinaria artista pop surrealista. Altri elementi dell'arte di Danni Shinya Luo  sono la natura e gli animali esaltati quasi fossero entità a se stanti che, tuttavia, ben si fondono con le Pin-up e la loro innocente sensualità. La forza bruta delle tigri, la viscosità degli invertebrati o di alcuni rettili sembrano contrapporsi alla dolcezza maliziosa sprigionata dai corpi femminili ma nel contempo si completano con essa.

Per maggiori informazioni vi invito a vedere il sito personale dell'artista: dshinya.blogspot.com

mercoledì 28 settembre 2011

La vergine eterna: seduzione, amore e mistero nell'ultimo romanzo di Kenzaburō Ōe

Raggelando e uccidendo la mia bella Annabel Lee non è solo un meraviglioso verso di una nota e struggente poesia di Edgar Allan Poe, ma anche il titolo del romanzo di Kenzaburō Ōe tradotto in La vergine eterna, pubblicato nel 2007 in Giappone e uscito da poco in Italia per Garzanti. L'autore, Premio Nobel per la Letteratura nel 1994, è solito mescolare nei suoi romanzi aneddoti autobiografici con l'immaginato intreccio narrativo sapientemente raccontati attraverso una scrittura inafferrabile e impegnata.

La vergine eterna è un romanzo che scava nel privato dell'autore mantenendo uno stile elevato, una forza e una personalità che rimangono intatti fin dai primi romanzi, quando  Kenzaburō Ōe contrapponeva la cultura sofisticata di Tokyo all'educazione ricevuta nell'isola di Shikoku. 
Il protagonista è uno scrittore anziano che ormai non si dedica più alla scrittura ma accudisce il figlio quarantenne (diventato un musicista famoso a livello internazionale) affetto da una grave lesione cerebrale. La storia attinge dalla vita privata dell'autore. L'esperienza quotidiana che ha portato Kenzaburō Ōe a confrontarsi ogni giorno con la menomazione del figlio ha segnato la vita stessa dello scrittore il quale ha denunciato in più romanzi i pregiudizi della società nei confronti del problema dell'handicap.

Il romanzo tuttavia si infittisce, diventando enigmatico ma anche affascinante, proprio nel momento in cui lo scrittore, durante una delle sue passeggiate con il figlio, incontra un amico di vecchia data, Komori Tamotsu, compagno di studi e ora produttore cinematografico. L'amico gli propone di scrivere una sceneggiatura la cui protagonista sarà un'altra vecchia conoscente dello scrittore, Sakura Ogi, sensuale attrice le cui movenze provocatorie non sono cambiate nel corso degli anni. 

Il presente che vive lo scrittore si ricollegherà ad una storia passata, ad un lontano ricordo che risale a trent'anni prima: un incontro segreto (e probabilmente filmato) che coinvolge l'allora attrice esordiente Sakura con Komori Tamotsu. Finzione o realtà? Ricordo o fantasia? Il filmato, dopo trent'anni, ricomparirà alla vista dello scrittore, il quale ricorderà il turbamento che aveva provato nel vedere quella giovane ragazza avvinghiata a Komori. Turbamento che riguarderà la stessa Sakura, la quale ha cercato di dimenticare ciò che era accaduto ma inconsciamente la ferita non si è mai chiusa.

La vergine eterna appare come un romanzo che cela in sé un mondo nascosto, un'esplorazione antropologica dei personaggi e della loro identità. Interessante da sottolineare è l'ambientazione del film che il protagonista deve scrivere per l'amico produttore: l'isola natale di Kenzaburō Ōe, Shikoku, che sottolinea il continuo intreccio tra elementi autobiografici e finzione narrativa.

Io sono un gatto: l' Epoca Meiji raccontata da Sōseki Natsume

La copertina del romanzo edito da
Beat

Il sono un gatto, opera prima di Sōseki Natsume uscito in Giappone nel 1905, pubblicato in Italia nel 2006 da Neri Pozza e ora uscito per Beat, rappresenta un libro interessante per chi ama la latteratura giapponese ma anche per coloro che vogliono affacciarsi, attraverso un romanzo, alla cultura e alla storia nipponica.

Scritto e pubblicato nel 1905, Io sono un gatto, risente della guerra Russo-Giapponese di quegli anni: il Giappone, diventato una potenza imperialistica, vuole imporre la sua supremazia in Cina e nell'estremo Oriente. Una guerra terribile avverrà contro la Russia e vedrà uscire vittorioso il Giappone ma sfinito per l'elevato costo di vite umane. 

L'orgoglio giapponese derivato da questa sanguinosa vittoria affonda le sue radici nell'epoca Meiji (dalla seconda metà dell'Ottocento fino ai primi del Novecento) quando la nazione inizia ad aprirsi al mondo esterno percorrendo la strada di una nuova civilizzazione, chiamata Bunmei-Kaika (civiltà e illuminismo). Da un punto di vista culturale questo rappresenta uno dei periodi più frizzanti che, negli anni, portano alla definizione della letteratura giapponese, tuttavia il trauma che ne deriva è devastante per la società giapponese alla quale viene chiesto in pochi anni uno sforzo, che tocca la sfera politica, economica e sociale, che il mondo esterno (in particolare l'Occidente) sta compiendo da secoli.

Da qui la perplessità di filosofi e scrittori, tra cui Sōseki Natsume, nei confronti della modernità vista appunto come un processo innaturale che avrebbe portato alla depressione dell'intero Paese. Sōseki Natsume non si stancherà mai di ripetere questa tesi nei suoi romanzi e anche durante  le conferenze (come quella del 1911 che verrà ripresa e riproposta nel saggio La civiltà del Giappone contemporaneo).

Nel romanzo Io sono un gatto la cultura, lo stile di vita e anche i sentimenti, talvolta tormentati,  della società giapponese dell'epoca emergono durante le chiacchiere tra il professor Kushami, padrone del gatto, e i suoi amici. Discorsi distesi dai quali non emerge la rabbia, la disperazione, la sofferenza più volte sottolineati dall'autore in altri romanzi; tuttavia si intravede un certo cinismo verso la modernizzazione che sta vivendo il Giappone. Il cinismo lascia anche il posto a qualche sorriso di fronte ai giudizi del padrone del gatto nei confronti delle abitudini occidentali.

Lo scrittore Soseki Natsume 
Si potrebbe dire che il vero protagonista è il gatto stesso poiché attraverso il suo sguardo il lettore viene condotto nella vita del professor Kushami, nei rapporti che intrattiene, nei gesti quotidiani che, alle volte, lo dipingono buffo e singolare. E' un gatto determinato, che non si spaventa di fronte all'iniziale ritrosia e alla scontrosità del professor Kushami al contrario, continua a vivere in quella casa e ad osservare come si comportano gli essere umani i cui occhi sono sempre rivolti al cielo "con il pretesto di elevare lo spirito" e per questo "non riescono a distinguerci l’uno dall’altro nemmeno nelle più evidenti caratteristiche, figuriamoci nel carattere". 

Cinismo, sorrisi amari, episodi divertenti ma anche riflessioni, pensieri e annotazioni di un'epoca di transizione di cui Sōseki Natsume non vedrà mai l'evolversi a causa della morte prematura avvenuta  nel 1916. Io sono un gatto è la testimonianza di quell'epoca controversa che, se da un lato ha portato ad una maggiore libertà, alla crescita culturale ed emotiva, dall'altro ha richiesto uno sforzo di fronte al quale, probabilmente, la società giapponese non era pronta e la conseguenza, come asserisce Sōseki Natsume, è tanto tragica quanto quanto devastante per l'animo umano.

martedì 27 settembre 2011

La vita accanto di Mariapia Veladiano

E' la campagna vicentina che fa da sfondo a questo romanzo intenso, il primo romanzo di Mariapia Veladiano, La vita accanto, edito da Einaudi, vincitore del Premio Calvino 2010 e finalista del Premio Strega (vinto da Edoardo Nesi con Storia della mia gente). La vita accanto è un libro doloroso, quel dolore che potrebbe sfiorare ognuno di noi, in qualsiasi momento della nostra vita, quel dolore di fronte al quale ci si arrende oppure si combatte.

Rebecca ha capito, fin da quando era bambina, quale sarebbe stato il suo ruolo nel mondo: marginale, confinato in una zona d'ombra, alla larga dagli sguardi altrui. Per tutta la vita Rebecca è sempre stata attenta a calibrare le parole, controllare i movimenti del proprio corpo, a non essere indiscreta o inopportuna, a non arrecare disturbo: una vita trattenendo il respiro e tutto ciò a causa della sua bruttezza. Rebecca, nome ebraico il cui significato è "colei che piace agli uomini" è nata brutta. "Non sono storpia" racconta di sé la protagonista "per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta. Non ha senso l'elenco: non rende".

La madre di Rebecca, dopo la sua nascita, viene travolta dal dolore, si arrende ad esso e a causa di ciò non prenderà mai in braccio la bambina, le negherà gli sguardi, le carezze, i baci, i gesti di affetto, non la abbraccerà neppure quel giorno che Rebecca cadrà battendo la testa sul marmo duro e freddo. La madre scivola in un mondo suo, dove le bugie del passato si mescolano al presente.

Anche il padre di Rebecca nutre delle reticenze nei suoi confronti: l'impossibilità di poter aiutare la moglie da un lato e i rimorsi per un passato poco chiaro dall'altro inaridiscono il suo cuore e non gli permettono di rapportarsi con la figlia. La presenza di Erminia, sorella del padre di Rebecca, è devastante tanto per i due coniugi (che sentiranno minacciata la loro intimità, o ciò che resta di essa, dall'aggressività verbale di questa donna) tanto per Rebecca la quale si illude di essere accettata e amata dalla zia che però l'abbandonerà non appena diventerà una ragazzina. A crescerla ci sarà Maddalena, che ha dovuto rinunciare alla sua famiglia, morta in un incidente stradale, e riverserà su Rebecca tutto il suo amore accompagnandola verso l'età adulta. 

Le sofferenze che aleggiano in questa famiglia verranno alleviate dalla stessa Rebecca che si legherà sempre di più a Maddalena, stringerà amicizia con Lucilla e la signora De Lellis (una grande concertista che finge una vita che non le appartiene). Rebecca imparerà a reagire al dolore, scaverà nel suo passato e scioglierà la matassa che tormenta da anni la sua famiglia. 

Con una scrittura limpida, poetica, descrizioni sublimi e ricercate, Mariapia Veladiano accompagna il lettore all'interno della storia, presentata non come un dramma familiare ma come una favola che infonde speranza. La passione e le doti di Rebecca dimostreranno che il dolore si può sconfiggere, così come le bugie e le maldicenze. 

lunedì 26 settembre 2011

Economia, finanza e società: Italia e Germania a confronto a Presa Diretta - Rai3

L'inquinamento delle acque nel Golfo di Napoli
Nella giornata di ieri, domenica 25 settembre, è andato in onda su Rai3 il programma Presa Diretta. La puntata era centrata sulla crisi economica e finanziaria che si sta abbattendo sull'Italia, con particolare attenzione alla città di Napoli, ex capitale economica italiana. Ex in quanto non rappresenta più il fulcro del commercio marittimo, del turismo e dell'arte, esautorata della sua dignità prima ancora che del suo ruolo originario. 

Senza entrare nel merito dei provvedimenti governativi per risolvere questo problema (provvedimenti, tra l'altro che conosciamo bene e di cui conosciamo ancora di più gli esiti) è interessante soffermarsi sull'esplicito paragone che Presa Diretta ha fatto con un'altra nazione la quale, nel corso degli ultimi vent'anni, ha avuto enormi difficoltà economiche: la Germania.

In Campania, nel golfo di Napoli, da quasi trent'anni, si sta combattendo una guerra contro "ignoti": si parla di una storia che va avanti dal '73, in seguito al colera, successivamente con la progettazione di impianti di depurazione nel '74 entrati in funzione sei anni dopo a cui hanno fatto seguito un'alternanza di amministratori locali e società che, sistematicamente, esaurivano i finanziamenti. I lavori di bonifica e depurazione delle acque del golfo napoletano e delle zone limitrofe non hanno portato, ad oggi, nessun risultato nonostante nel 1996 venne dichiarato lo stato di Emergenza della Penisola Sorrentina e Isole a sud di Napoli. Gli inviati di Presa Diretta, Riccardo Iacona e Gaetano di Vaio, hanno intervistato persone comuni, semplici lavoratori che hanno visto la loro terra peggiorare nel corso di questi anni.

A questo si devono aggiungere i tagli del governo sui trasporti che ammontano al 20%. Questo discorso riguarda soprattutto le aziende del gruppo Eav (Sepsa, Circumvesuviana, Metrocampania Nord-Est, Eav Bus). 
Tutto ciò ha portato ad una drastica diminuzione dei posti di lavoro: centinaia di famiglie si trovano sul lastrico e la situazione non sembra voler migliorare. Recenti statistiche pubblicate dalla Regione stessa hanno preannunciato la perdita nei prossimi mesi di 20mila posti di lavoro, oltre ai 35mila già precari, in mobilità o in cassa integrazione. 

Il complesso minerario trasformato in Museo
Un altro inviato di Presa Diretta, Domenico Iannacone, è andato in Germania, più precisamente nella regione della Ruhr, un tempo il più grande bacino carbonifero della nazione. 
Dopo il crollo del Muro di Berlino, la Germania orientale si è ritrovata economicamente svantaggiata rispetto a quella occidentale. La nazione ha quindi pensato ad un piano risanatore dell'economia e della società. La Germania dell'ovest si è impegnata per anni nel pagamento di una maggiorazione sulle tasse per aiutare la parte est. Nel piano risanatore era compreso anche il bacino della Ruhr che, in soli dieci anni, è stato trasformato, grazie ai finanziamenti pubblici, privati e allo sforzo di tutti i cittadini tedeschi, in un paesaggio completamente rinnovato con numerosi parchi, giardini, canali e laghi; spettacolari attrazioni, musei ed enormi centri commerciali si sono sviluppati in questa regione. I locali tipici, dove si lavorava il carbone, sono stati trasformati in musei all'interno dei quali si possono incontrare anche minatori dell'epoca che accolgono i turisti facendo loro da guida. Noleggiando una bicicletta si possono ammirare le abitazioni restaurate dei minatori, come la Margaretenhöhe a Essen, ma anche residenze di prestigio come la sfarzosa villa della famiglia Krupp. 

I parchi che circondano la Ruhr
Gli sforzi compiuti dalla Germania in soli dieci anni nella regione della Rhr, possono essere tradotti in numeri: 10.000 posti di lavoro, 120 teatri, 1000 musei, più di 2 milioni di turisti all'anno. La Regione è stata premiata Capitale della cultura 2010.
All'università di Lipsia, oltre ai servizi efficienti ed organizzati, alle aule spaziose, illuminate e mai affollate (comprensive di tecnologie per non udenti), c'è una struttura, assolutamente gratuita, per le studentesse-mamme. Un asilo, maestre, giochi e svaghi per i più piccoli, mentre le mamme vano a lezione. E nei bagni ci sono gli spazi anche per i bambini. Anche in questo caso possiamo dare qualche numero: 20.000 posti di lavoro. E tutto questo in dieci anni.

A questo punto vorrei invitare alla riflessione.

domenica 25 settembre 2011

Seta di Alessandro Baricco

"Per vivere, Hervé Joncour comprava e vendeva bachi da seta". Era il 1861, in una qualche regione della Francia meridionale, in un paese dal nome Lavilledieu, Hervé, un giovane di trentadue anni, comprava e vendeva bachi da seta "quando il loro essere bachi consisteva nell'essere minuscole uova". A causa delle epidemie che spesso colpivano gli allevamenti europei, Hervé comprava le uova in Siria o in Egitto. I suoi viaggi avventurosi duravano dagli inizi di gennaio fino alla prima domenica di aprile, quando, carico di uova color giallo o grigio, tornava a Lavilledieu dalla moglie Hélène in tempo per la messa.

Quando qualcuno gli chiedeva com'era l'Africa, lui rispondeva: "Stanca". E quel continente stanco si rivelò, qualche anno dopo, la causa di un cambiamento che avrebbe sconvolto la sua vita. L'epidamia raggiunse l'Africa e persino l'India. L'ultimo viaggio di Hervé fu fatale: le uova, al suo ritorno, erano completamente infette. Questo significò un arresto del sistema economico di quella piccola cittadina del sud della Francia che si reggeva, quasi interamente, sulla lavorazione di bachi da seta.

In seguito ad una riunione con Baldabiou, alcuni commercianti ed operai di Lavilledieu, Hervé decise di partire per il Giappone. Baldabiou, un uomo che aveva investito, vent'anni prima, nella costruzione di sette filande, in una notte d'agosto spiegò a Hervé dove si trovava il Giappone: "Sempre dritto di là" e alzò il bastone indicando i tetti di Saint-August.

Iniziarono in questo modo i viaggi in Giappone di Hervé Joncour, il trentaduenne che non si fermava di fronte a niente e a nessuno. Deciso a salvare il destino del suo paese e forse anche il suo, Hervé attraversò posti che non aveva mai visto e andò sempre dritto, proprio come gli aveva insegnato Baldabiou. Arrivò in Giappone, venne ricevuto alla corte di Hara Kei, un uomo potente e venerato da tutti che conservava le uova più pregiate del mondo. Hervé, nel corso degli anni, imparò a frugare negli occhi di quel potente signore, silenzioso e schivo, accompagnato da una ragazzina il cui volto era coperto da un velo, solo gli occhi erano visibili ed erano occhi occidentali, che sembrava volessero parlargli.

Un gioco di sguardi seducenti, una ricerca, una scoperta. Quella di Hervé divenne una voglia quasi ossessiva di tornare in Giappone, ancora una volta, un'ultima volta, per rivedere quegli occhi, lo sguardo di quella bambina. Mai una parola tra Hervé e la bambina, solo sguardi fugaci, rubati all'austerità della corte di Hara Kei, alle regole di una cultura fondata sull'onore e il rispetto, alla mancanza di coraggio che entrambi preservarono. Queste emozioni paralizzarono la vita di Hervé, il quale aspettava con ansia i viaggi futuri, fino a quando una guerra dolorosa spezzò l'incanto di quella magia.

Seta è un romanzo breve, dove la prosa diventa, come solitamente accade nei libri di Baricco, poesia, naturale immaginazione di un mondo altro, un mondo non accessibile a tutti. La prosa come un tempio dove la voce si trasforma in melodia e la percezione di se stessi è eterea e impalpabile. Un libro magnifico che racchiude in sé anni di letteratura. Un romanzo senza precedenti pubblicato per la prima volta nel 1996 da Rizzoli, successivamente ripubblicato da Feltrinelli e da cui è stato tratto l'omonimo film nel 2007 per la regia di Francois Girard. 

Venuto al mondo di Margaret Mazzantini

Venuto al mondo, edito da Mondadori nel 2008, romanzo corale che ha vinto il Premio Campiello 2009, è un libro che racchiude temi forti, dolorosi, carichi di umanità, quella stessa umanità di cui sono pregne le pagine dei romanzi della Mazzantini (come abbiamo potuto vedere qualche giorno fa con la recensione all'ultimo romanzo Nessuno si salva da solo). Un'umanità che scuote il lettore, risvegliandolo dal torpore che assopisce i sensi e atrofizza la mente. La stessa autrice ha ammesso, in più interviste, anche recenti, che il suo lavoro ha senso solo nel momento in cui le persone le raccontano le sensazioni che hanno provato leggendo i suoi libri. La Mazzantini dice infatti di credere "nel giudizio della gente normale, la gente che non guarda solo la televisione, ma legge anche i libri".

Venuto al mondo racconta una delle guerre più recenti della storia europea, la guerra tra Serbi e Bosniaci che ha colpito, fra le tante città, soprattutto la capitale bosniaca Sarajevo. La scrittrice descrive uno scenario terribile, che non porta vincitori ma solo vinti. Una guerra tra lacrime e disperazione, che uccide  giovani corpi innocenti ma anche gli animi degli stessi cecchini, una guerra senza pietà, morta anch'essa come le sue vittime. A Sarajevo dove i segni di una rabbia etnica, di un odio atavico, sono visibili tuttora, Gemma, la protagonista, ritorna sulle tracce di un  passato lasciato cadere tra le macerie delle case e dei palazzi. Gemma parte da Roma, insieme al figlio Pietro, in seguito all'inaspettata telefonata di Gojko, poeta e suo carissimo amico, che la informa di una mostra che sta allestendo in ricordo dell'assedio da parte delle truppe serbo-bosniache. Tra le foto esposte ce ne saranno alcune di Diego.

Una serie di flashback la porteranno a ricordare la sua vita negli anni Novanta, i primi incontri con Diego, il suo grande amore nonché padre di Pietro. Il suo sarà un viaggio introspettivo, nel ricordo della battaglia personale, una terribile menomazione all'utero, combattuta mentre un'altra battaglia (quella appunto tra due etnie), altrettanto tragica e dolorosa, si stava consumando davanti ai suoi occhi e a quelli di Diego. Eppure Gemma non si diede per vinta, sconfisse il dolore personale ricorrendo ad una soluzione discutibile, probabilmente avventata o poco convenzionale: scegliere un'altra donna come genitrice del suo bambino. 

Venuto al mondo rappresenta una storia privata e universale al tempo stesso, una storia in cui la vita vince sulla guerra: la nascita di Pietro è una speranza non solo per Gemma e Diego ma anche per coloro che le stanno attorno, anche per chi non li conosce e li guarda da lontano. 

sabato 24 settembre 2011

Quando la notte di Cristina Comencini: il romanzo e il film

Il Festival del Cinema di Venezia si è concluso da poco. Tra i film italiani presenti, Quando la notte, di Cristina Comencini, ha diviso la critica e il pubblico. Da un lato c'è chi sostiene la regista quando afferma che "la maternità è un tema che le donne sono disposte ad affrontare, gli uomini un po’ meno" e il produttore del film, nonché marito della Comencini, Riccardo Tozzi secondo il quale  "l’idea di abolire la proiezione riservata esclusivamente alla stampa ha permesso a un gruppetto sparuto di rovinare la visione a tutti gli altri"; mentre dall'altro abbiamo chi boccia il film, chi fischia al momento dei titoli di coda e addirittura chi ride durante le scene più drammatiche.  

Senza addentrarsi nel merito della sceneggiatura, è importante dare spazio al romanzo, dal quale è stato tratto il film, scritto dalla stessa Comencini. Quando la notte, edito a settembre del 2009 dalla casa editrice Feltrinelli, è stato un libro apprezzato dal pubblico e rimasto in vetta alle classifiche dei libri più venduti anche durante lo scorso anno.

Il romanzo tratta una storia delicata e dai tratti torbidi. Marina, una donna che cerca di nascondere la sua fragilità dietro una maldestra e impacciata sicurezza, si reca per un mese in montagna, sulle Dolomiti, con il figlio piccolo. L'aria di montagna dovrebbe far bene al bambino, tranquillizzare il suo animo irrequieto, stimolargli l'appetito, renderlo felice. Anche per Marina potrebbe essere l'occasione per distrarsi, trascorrere piacevoli giornate con il figlio, fare passeggiate e dimostrare a tutti, a Mario (il marito), a sua madre e alle sue sorelle che ce la può fare, che lei ha l'istinto materno di cui le hanno parlato fin da quando portava in grembo il suo bambino.

Marina ha preso in affitto un appartamento sopra quello di Manfred, un uomo burbero e scontroso, tradito e lasciato dalla moglie che gli ha portato via anche i figli. Circondato dal gelo delle Dolomiti, il cuore di  Manfred è diventato una pietra. Un cuore già ferito, già schiacciato dal peso della madre che, molti anni prima, se n'era andata. Manfred si chiude nel suo mondo, scaricando sul prossimo l'odio che prova verso la vita. O forse verso se stesso.

Marina e Manfred si incontrano di rado e durante quei fugaci incontri si annusano, si guardano con sospettano, cercano di capire cosa passa nella mente l'una dell'altro. Per Marina, Manfred è uno zotico, maleducato e per giunta incapace di intrattenere rapporti. Venuta a sapere che la moglie lo ha lasciato, Marina non ci pensa su troppo a dare ragione a quella donna. Manfred invece giudica la ragazza, venuta dalla città, incapace di accudire il bambino, nota il suo nervosismo di fronte ai pianti eccessivi ed estenuanti del figlio, la sua goffaggine nel prendersi cura di lui e sospetta uno strano rapporto tra madre e figlio.

Una sera Marina perde il controllo e il bambino si fa male. Un incidente, un "banale incidente" che potrebbe trasformarsi in tragedia se Manfred non fosse stato in casa, se non avesse sentito le urla e i pianti provenire dall'appartamento di Marina. Soccorre entrambi, madre e figlio, li porta al Pronto Soccorso.

Sarà da quel momento che lui capirà il segreto di Marina, cosa si cela dietro quella maschera di sicurezza. Si cercheranno, i silenzi faranno spazio alle confidenze, ai pianti e si sveleranno. Anche Marina inizierà a capire qual è il motivo per cui Manfred è stato lasciato dalla moglie. Ma un mese è poco, l'estate volge al termine e Marina torna in città, da Mario e dai suoi problemi.
Marina non si dà per vinta, tornerà anni dopo, cercherà Manfred. Andrà fino in fondo alla loro storia, a quel desiderio misto alla paura che entrambi provarono tanti anni prima.

La scrittura della Comencini è fluida, simbolica, emozionante, ricca di flashback che ne esaltano l'intreccio narrativo, dando così un valore aggiunto al romanzo. Quando la notte affronta temi delicati, quali la maternità e il difficile rapporto tra madre e figlio specie se si ha un passato poco sereno e definito come quello di Marina, se i fantasmi ti girano attorno, se le pressioni psicologiche e morali della famiglia ti soffocano. E poi la paura e il desiderio, che contraddistinguono i rapporti tra uomo e donna, di amarsi, lasciarsi per poi ritrovarsi, i segreti che si celano nella vita di ognuno di noi, quei segreti con i quali prima o poi si devono fare i conti.

venerdì 23 settembre 2011

Nessuno si salva da solo di Magaret Mazzantini

Quando ci si trova di fronte ai romanzi di Margaret Mazzantini ci scontriamo con personaggi tormentati, che usano un linguaggio altrettanto tormentato, personaggi che lottano, sperano, piangono, che guardano ora al passato ora al futuro, che intrecciano la loro vita con quella di altre persone, talvolta sbagliate, e le loro vicissitudini trasportano il lettore nell'immaginario della scrittrice.
Questo è quello che accade leggendo l'ultimo romanzo della Mazzantini, Nessuno si salva da solo, edito da Mondadori agli inizi del 2011 e che ha avuto un successo di critica e pubblico tanto da restare nelle classifiche dei libri più venduti tuttora, mesi dopo la pubblicazione.

La forza che risiede nella scrittura della Mazzantini è la capacità di lavorare sui personaggi, far emergere la loro anima con una tale semplicità e una facilità di comunicazione che chiunque viene colpito e coinvolto da ciò che sta leggendo.
Nessuno si salva da solo è un romanzo puro, genuino, all'interno del quale non troviamo il conflitto umano e la struttura delineata che risiedono in Venuto al mondo. L'ultimo romanzo della Mazzantini sembra nascere da un'ispirazione fulminea che trova terreno proprio nella storia di due giovani raccontata attraverso una serie di flash.

Delia e Gaetano sono due trentenni, hanno ancora tutta la vita davanti, eppure una grossa ferita brucia la loro anima e a causa di questa ferita sembrano non riuscire ad emergere dalla sofferenza e dal dolore. 
Si sono amati selvaggiamente, chiusi in una stanza respirando l'odore dei loro corpi, annusandosi "ben bene nell'arco di poche ore, convinti di poter riempire ogni buco con la sola forza dell'esaltazione". Eppure seduti a un tavola di una trattoria di tendenza, con cibi semplici e vini di qualità, mentre lui la guarda, Delia al loro passato, a partire dall'estate dopo la sua laurea, quando avrebbe dovuto andare a Londra con Micol, una sua cara amica. Si sarebbe trasferita in quella città, avrebbe potuto diventare nutrizionista e intanto lavorare come cameriera. Non è andata proprio così per Delia e il fatto che si trova seduta al tavolo di quella trattoria con Gaetano ne è la prova. 

Quando si sono conosciuti, Delia e Gaetano, erano due anime rotte che speravano di colmare i loro vuoi esistenziali con l'amore malato che nutrivano l'una per l'altro. Lei aveva ancora i denti rosi dall'anoressia, lui scriveva sceneggiature. Vivevano in un piccolo appartamento a Roma. Di giorno sognavano di fare l'amore, la sera poi concretizzavano la cosa. 
Un giorno, mentre sono a letto, nella più completa intimità, qualcuno chiama Gaetano, probabilmente un agente che gli propina un lavoro. Lui è nudo, passeggia per la stanza con la sigaretta accesa, si è calato nei panni dello sceneggiatore in pochi secondi, dimenticandosi di Delia. Lei non esiste. Ma Delia non lo lascia quella volta, aspetta di toccare il fondo, di farsi e fare del male. Resta incinta una volta, poi un'altra ancora. Ed è a quel punto che iniziano gli insulti. Piatti rotti, urla, grida nella notte. Ma non si lasciano, il fondo ancora non l'hanno toccato. 

Il lettore viene proiettato nel passato di questa giovane coppia trentenne che rivive, nell'arco di una serata, durante una cena per parlare dei propri figli, la sofferenza che li ha portati a cadere nell'abisso e a chiedersi adesso chi ci salverà, possiamo farcela da soli?
L'amore e il non amore, le illusioni alle quali hanno ricorso, la loro infanzia precaria, vissuta nell'ombra di genitori assenti, che non si sono accorti, o peggio non volevano accorgersi, della loro presenza, la paura di guardare avanti, il futuro che spaventa proprio perché non vi è la certezza  di riuscire a sopravvivere al dolore che si portano appresso, un dolore che si potrebbe definire infinito. Queste sono le tematiche affrontate nel romanzo.
La storia di una coppia qualsiasi, di quelle che si possono incontrare ogni giorno. 

giovedì 22 settembre 2011

Da Mark Ryden a Rock’n’Dolls: il Pop surrealism in mostra a MondoPop a Roma

Just the girls di Mark Ryden
Mondi immaginari, onirici e visionari, che riportano però sfumature pittoriche classiche. Non si vuole dare una definizione di pop surrealism, sarebbe una velleità che non ci si può permettere, tanto è vasto la grammatica di quest'arte. 
Tuttavia non ci si può esimere dal sottolineare le origini di questa corrente che affondano le radici agli inizi del Novecento, quando le avanguardie, per opera di menti geniali e lungimiranti, hanno contribuito a dare lustro alla letteratura, alle scienze e all'arte nel senso più ampio del termine. Nel corso dei decenni le avanguardie hanno mutato espressione e forse, per alcune di loro, è cambiato anche il manifesto culturale che le ha rese celebri all’epoca. E’ quello che è accaduto al pop surrealism, corrente che ha iniziato a diffondersi alcuni decenni fa in California grazie alle opere di Mark Ryden, una delle menti più creative della scena artistica, conosciuto ormai in tutto il mondo.


Quella di Ryden è una pittura psichedelica, che lascia spazio all’immaginazione e che si nutre di quella visione onirica,  tanto cara al surrealismo del primo novecento, che scava nella profondità dell’inconscio “collettivo”. Ryden interpreta e riscrive la cultura che ci circonda, a partire da tutto ciò che è distorto, perverso e malizioso nel mondo adulto e che tende a contaminare, l'universo infantile. Ryden infatti ritrae delle bambine che sembrano voler sedurre l'osservatore, attraverso le loro movenze lascive e un poco impertinenti. Eppure dietro i loro sguardi supplichevoli, dietro quegli occhi grandi e sanguinanti, si celano delle bambine macchiate di sangue, gli sfondi infatti sono spesso macabri e rimandano, come si diceva poc'anzi, ad una realtà adulta che inquina il mondo dei più piccoli. 
Soggetti fiabeschi e tonalità pastello, che rivelano aspetti inquietanti della realtà sociale, una realtà, che, tuttavia, sembra non voler essere tale, sfocata dal flusso onirico e rimestata con aspetti noir della psiche umana.



Difficile incasellare una forma d’arte, quale è il pop surrealism, che non vuole saperne di essere decifrata. Ma è proprio questa una delle sue peculiarità. Molti artisti hanno attinto dall’immaginario onirico e dalla profondità dell’inconscio che scaturiscono da questa forma d’arte, inaugurata e resa celebre da Ryden, oltre che dalla sua energia emotiva e propulsiva. Basti pensare ai personaggi di Tim Burton, resi speciali dall’originalità nell’unire le caratteristiche del pop surrealism con metodologie innovative nella rappresentazione degli stessi.

Ma si potrebbero anche citare nomi come Camilla D’Errico, artista italo-canadese che vive a Vancouver, nelle cui opere si intravedono accenni del surrealismo rydeniano, ma anche influenze dello stile giapponese, in particolare quello manga.

Camilla D'Errico
Si capisce quindi che il pop surrealism è una corrente, una forma d'arte, un'avanguardia che non conosce confini. Nata in America, ha attecchito poi in tutto il mondo, dall'Europa all'Asia. E a riprova di questo si possono citare le molte mostre di artisti surrealisti che vengono presentate anche in Italia, ad esempio la Galleria di arti ipercontemporanee di Roma, Mondo Bizzarro, ha presentato, tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011, una mostra centrata sul pop surrelism e che è stata riproposta  a Perugia, alla Galleria Miomao.

La stagione pop surrealista italiana non si è conclusa agli inizi della primavera. MondoPOP International Gallery di Roma presenta, fino al 15 ottobre, artiste femminili appartenenti alla corrente del pop surrealism. La mostra prende il nome di "Rock’n’Dolls", ricordando, da un lato, il ritmo elettrico, incalzante, ma anche armonico del rock puro, dall'altro le bambole creepy, ovvero le dolls tratte dai B-movies ma rimaneggiate dall'immaginario delle artiste. 

mercoledì 21 settembre 2011

Bianca come il latte rossa come il sangue: l'esordio di Alessandro D'Avenia

Si possono dire tante cose sul romanzo di Alessandro D'Avenia, Bianca come il latte rossa come il sangue, edito agli inizi del 2010 da Mondadori, per esempio che è giudicato da molti un libro rivolto agli adolescenti, ma nel quale possono ritrovarsi anche gli adulti. Oppure si può sottolineare il fatto che ci troviamo di fonte a delle tematiche, il primo amore e la morte, la sofferenza causata da una malattia, trattate e forse, talvolta, bistrattate.

In questo caso siamo di fronte ad un romanzo controverso nel senso che, se da un lato è visibile la volontà dell'autore di affrontare temi delicati, dall'altro ci sono parecchie fratture che inducono a pensare una modalità di raccontare che volge alla sintesi, all'immediatezza, alle sensazioni veloci e facili da afferrare soprattutto per un cuore giovane, non avvezzo alla potenzialità della letteratura. 

Il romanzo racconta la storia di Leo, un ragazzo come tanti che ama la musica, non si stacca dal suo ipod, esce con gli amici, studia anche se non volentieri e critica i professori. Una delle sue ossessioni è il bianco, il bianco come colore, anzi come non-colore, che gli ricorda il vuoto, il nulla, qualcosa di sospeso, immateriale. Ed ecco che nella sua vita si fanno spazio tre personaggi che, in modo differente, avranno una qualche rilevanza per il suo futuro: Silvia, l'amica del cuore, segretamente innamorata di lui, con la quale però Leo cercherà, ignaro dei sentimenti della ragazza, di tenere un comportamento amichevole; il suo cuore infatti è per Beatrice, la ragazza dai capelli lunghi e rossi, che sprigiona quella freschezza e quell'ingenuità propria di una sedicenne, tuttavia Leo non riuscirà a svelarsi a Beatrice, cercherà di attirare la sua attenzione senza mai dichiararsi; e poi un professore, un giovane supplente di storia e filosofia che insegna ai ragazzi, attraverso le letture e le discussioni in classe, ad inseguire i propri sogni, ad avere dei progetti e quindi a credere nel futuro. 

Questo professore (nel quale probabilmente possiamo ravvisare l'autore) fa breccia nel cuore di Leo. Il ragazzo infatti inizia a seguire i suoi consigli: realizzare i propri sogni, che per Leo si traduce nel conquistare il cuore di Beatrice, la ragazza dai capelli rossi. 
Ritornano i giochi di colori, il bianco, il non-colore freddo, vuoto, rappresentante del nulla e dell'immateriale, e il rosso che invece evoca l'amore, la passione, il calore. E' anche un gioco di diapositive che scorrono di fronte al lettore per lasciare il posto ad altre immagini. 

E nel momento in cui Leo crede di essersi liberato dalla sua ossessione, il bianco appunto, ecco che il non-colore ritorna proprio in Beatrice, colpita da una tremenda malattia: la leucemia. Leo viene messo con le spalle al muro dalla vita stessa, una sola domanda sembrerebbe farsi strada in questo viaggio che dovrebbe portare alla maturità, alla riflessione: Leo verrà risucchiato dal bianco, dal pallore che coincide con la malattia di Beatrice oppure il rosso, alla fine, trionferà?

Veloci fotografie che raccontano la malattia di Beatrice così come, forse, veloce può sembrare l'approfondimento e lo spazio che viene dato ai sentimenti di Leo nei confronti di questa tragedia. Il ragazzo infatti sembra essere più concentrato sulla rielaborazione del suo sogno mancato che non sul rapporto nei confronti della malattia di Beatrice.
Come si diceva all'inizio, il tutto potrebbe rimandare ad un modo di raccontare che rivela delle mancanze in alcuni punti dell'intreccio narrativo, anche se non ci si può sottrarre dall'evidenziare le qualità dei temi trattati. 
Emerge quindi un romanzo controverso che lascia perplesso il lettore che punta l'attenzione sull'espressione contenutistica nonostante il coinvolgimento dato dalle tematiche.

Tua, il romanzo di Claudia Piñeiro

E’ stato definito una tragedia romantica (Deutsche Welle), un thriller tragicomico (Rosa Montero), si potrebbe aggiungere un noir satirico che dipinge, con estrema delicatezza e maestria, una famiglia borghese che, apparentemente, sembra non celare alcun disagio sociale. Si tratta del romanzo di Claudia Piñeiro, Tua, pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli. 

Ambientato a Buenos Aires, il libro narra la storia di  Inés, casalinga e moglie devota dell’imprenditore Ernesto, che decide di seguirlo una sera uggiosa, dopo aver trovato nella borsa del marito un biglietto scritto con il rossetto e firmato Tua. L’auto di Ernesto si arresta davanti al Parco Bosques de Palermo. Inés si apposta nei paraggi. Scende e lo segue. Piove a dirotto e, se non fosse stato per una giusta causa, non sarebbe mai uscita in piena notte soprattutto per pedinare il marito. Ma la scoperta, per un momento, la lascia senza parole: Ernesto la tradisce con Alicia, la segretaria. Eppure tra i due l’incontro non sembra dei più felici, Ernesto la respinge, alza la voce e infine la allontana con una spinta. Alicia cade, batte la testa e muore. Inés ha visto tutto. E’ la sola testimone. Raggiunge la macchina e decide di tornare a casa,  trovare tutte le prove della relazione extraconiugale di Ernesto nascoste nella ventiquattrore e in altri impensabili angoli della casa e nasconderle. 

Inés ha preso la sua decisione: fornirà, qualora ce ne sarà bisogno, un alibi al marito. Ma la situazione non è così semplice come potrebbe sembrare. Il litigio tra Alicia ed Ernesto celava delle ragioni precise che Inés, nella sua semplicità, non ha saputo cogliere. Si scoprirà che, mentre la moglie cerca di architettare l’alibi perfetto (come perfetta avrebbe dovuto essere la sua vita), Ernesto se la spassa con una ragazza, ben più giovane di Inés e dell’ormai defunta Alicia: si chiama Charo, la nipote di Alicia. E il cerchio non si chiude. 
Le indagini serrate della polizia, dopo mesi di ricerca del corpo di Alicia, coincidono con la presa di coscienza, da parte di Inés, di essere stata sfruttata come donna e come moglie. 
Una serie di colpi di scena sorprenderanno il lettore, accompagnandolo verso un finale inaspettato per chiunque.

Claudia Piñeiro (drammaturga e sceneggiatrice argentina oltre che scrittrice) dimostra di possedere una scrittura intensa, pulita, che nella sua semplicità, rovescia la prospettiva e tratta, con forza, tenacia, passione e anche con un pizzico di sano umorismo, l’adulterio, le dinamiche familiari della  borghesia, il sacro vincolo del matrimonio. L’ingenuità di Inés è l’ingenuità di tutte le donne che pensano che “dopo vent’anni, il matrimonio smette di essere quello che è per diventare quello che uno crede che sia” non accorgendosi di cozzare con l’identità di un marito che, negli anni, è mutata: la sacralità del matrimonio si trasforma in sacralità da esibire. Ma nel privato c’è tutt’altro. 

Puoi chiamarmi fratello di Tiziano Gaia

Diversità, paura. Ma anche entusiasmo e voglia di farcela, di ricominciare. Sono queste le parole, o meglio, i pensieri che balzano alla mente di fronte al libro di Tiziano Gaia, Puoi chiamarmi Fratello, edito dalla Instar Libri di Torino.

Tra le pagine di questo romanzo si intreccia e si snoda una storia che non vuole essere retorica, anche se sarebbe stato facile cadere nell’errore di fronte a temi quali l’amicizia tra persone appartenenti a culture diverse, i disagi di un continente irrisolto come quello africano, ma anche i colori e gli odori di una terra che tutti attira, per svariati motivi, e che tutti rimpiangono una volta lasciata. L’autore del romanzo, riesce a raccontare, con una scrittura semplice ma non semplicistica,  l’amicizia tra Christian e Tiziano. 

Christian viene dal Camerun è un calciatore mancato, ex spacciatore, conosce Tiziano in carcere, mentre lavorano entrambi nella torrefazione della prigione. Il primo sta scontando una pena, il secondo è un uomo libero. Dopo sette anni, Christian esce dal carcere e decide di tornare nella terra natale, l’Africa. Tiziano lo seguirà ed è a quel punto che la loro amicizia si rafforzerà ancora di più, complice il Camerun, la magia di questa terra, ma anche le evidenti difficoltà che presenta.

Un viaggio attraverso due continenti vicini geograficamente ma lontani da un punto di vista culturale e psicologico, una distanza che Tiziano e Christian sembrano voler azzerare ma anche comprendere, sviscerare, andando oltre i luoghi comuni. E in questo viaggio è Christian a capire che sono messe in discussioni le sue radici: in Europa non è considerato europeo e in Africa non è più riconosciuto come africano. Mentre parla di questo con l'amico, ci vogliamo immaginare Christian con il sorriso sulle labbra, lo stesso sorriso che ogni africano porta con sé, come segno di buon auspicio.

martedì 20 settembre 2011

Il vino della solitudine di Irène Némirovsky

Irène Némirovsky non solo è considerata una delle scrittrici novecentesche più controverse ma anche colei che meglio è riuscita a scavare nell’animo umano utilizzando una sensibilità rara per l’epoca in cui scrive, una creatività che non teme di addentrarsi nella profondità dei temi trattati attraverso l’accurata analisi psicologica dei personaggi che popolano il suo mondo.

Adelphi, che dal 2005 ripropone i suoi romanzi, ha dato alle stampe un altro capolavoro della scrittrice ebrea ucraina, Il vino della solitudine. Un titolo che conduce il lettore nel delicato mondo della protagonista, una bambina di otto anni di nome Hèlene, costretta a fuggire, insieme alla famiglia, da una cittadina della Russia a causa della rivoluzione bolscevica rifugiandosi a Parigi, come molti altri connazionali. La vita di questa bambina è scandita non solo dagli instabili movimenti politici e dalle rivoluzioni che dominano quel momento storico nell’Europa dell’Est ma anche dal fermento culturale parigino che influenza la vita di Bella, la madre di Hèlene.

Centro nevralgico per molte famiglie benestanti dell’Europa orientale, oltre che per molti artisti, Parigi rappresenterà un momento di svolta nella vita di Helène, che si ritroverà ancora più sola di quanto già non fosse prima. Il cuore della narrazione riguarda il rapporto tra la bambina e Bella, la madre, una donna accecata dalla superbia e dall’egoismo, avida dei soldi del marito, nei confronti del quale non nutre alcun tipo di sentimento, se non un legame morboso con la sua ricchezza. Le energie della madre di Hèlene vengono spese per conquistare le attenzioni degli uomini, mentre è totalmente incurante del bisogno di attenzioni che richiede silenziosamente la figlia, la quale cresce nutrendo un odio profondo per questa donna così concentrata su se stessa.

Quella di Hèlene è una vita di solitudine e incomprensioni, di silenzi e cose taciute. E tutto ciò sfocia in un bisogno di vendetta, in una sete di giustizia domestica che si espliciterà quando Hèlene diventerà grande. Ma la sua sensibilità e la maturità che ha raggiunto la porta ad essere una donna diversa da sua madre, una donna che non può godere del male e della solitudine altrui. Così Hèlene cerca di riprendere le redini della sua vita, nonostante le insanabili ferite e i vuoti lasciati dalla madre.

Considerato uno dei romanzi più autobiografici, il tema del difficile, se non inesistente, rapporto tra madre e figlia ritorna ed è più ricco di particolari, scava nel profondo forse più di Jezabel (Adelphi, 2007), e a questo tema si intreccia l’instabilità del periodo storico che Hèlene, allo stesso modo di Irène, sta vivendo con conseguente sconvolgimento della sua vita. Anche in questo caso l’analisi è più curata e racconta maggiormente la vita di questa famiglia di quanto la scrittrice non abbia fatto nel romanzo I cani e i lupi (Adelphi, 2008).

Cosa tiene accese le stelle di Mario Calabresi

Cosa tiene accese le stelle, romanzo di Mario Calabresi edito da Mondadori, rappresenta una perla nel panorama letterario italiano. Non mi riferisco solo allo stile, raffinato, elegante, sapientemente nutrito da anni di esperienza (si parla di Calabresi, uomo colto oltre che direttore de La Stampa), mi riferisco anche all'alto contenuto narrativo risultato di un'attenta osservazione, di una ricerca continua nei confronti della situazione politica, sociale ed economica del nostro Paese.


Mario Calabresi, stimolato dalla continue lettere di italiani rassegnati, delusi, indignati, la cui voce è un grido silente che raccoglie solo taciti consensi, persone quindi che non credono nel futuro e che hanno perso la speranza, Calabresi è partito dai sentimenti di questi italiani per far capire loro, attraverso le interviste e i racconti di artisti e di gente comune, che l'Italia è ancora un Paese in cui si può sperare, il futuro è racchiuso nelle mani di coloro che non si perdono d'animo e conquistano la loro libertà grazie alla cultura, alla perseveranza degli obiettivi prefissati, alla tenacia.

Si passa dal racconto della nonna dell'autore, della libertà che è riuscita a conquistarsi nel 1955 acquistando la lavatrice e ritrovando un po' di tempo per se stessa, dedicandosi alla lettura (non importava quale libro avesse in mano, la cosa che le premeva era aprire un libro, dimostrare che poteva ancora dedicare del tempo solo per sé) all'incontro con Franca Valeri, attrice e sceneggiatrice italiana, che, grazie alla sua ironia e acuta intelligenza, ha raccontato il passato attraverso gli oggetti della sua casa senza però rimpiangerlo, al contrario lei dice di amare i giovani di oggi solo che mancano di una guida che sia in grado di aiutarli a trovare la loro strada, la loro vocazione.

Ma nel libro c'è spazio anche per artisti come Lorenzo Jovanotti che ricorda una delle scene del film The Social Network per sottolineare quanto sia importante non solo il talento ma anche la volontà e la passione con le quali una persona deve portare avanti i propri sogni. Investire sui propri sogni sembrerebbe anche l'opinione di Umberto Veronesi e Massimo Moratti.
Durante gli incontri-intervista, Calabresi si spoglia degli abiti da giornalista e gioca con il suo interlocutore, trattandolo come un amico di vecchia data, cercando di far uscire ciò che davvero porta dentro di sé.

Mario Calabresi, nel suo romanzo Cosa tiene accese le stelle, mette nero su bianco la verità di quella parte di italiani, famosi e non, che hanno conquistato la libertà grazie alla maturità, alla costanza e alla dedizione nei confronti dei loro sogni. Perché sperare è ancora possibile.

domenica 18 settembre 2011

"New Realism": Da Maurizio Ferraris a Emanuele Severino passando per Eco e Bauman

Maurizio Ferraris
Qualche giorno fa, a proposito della recensione al romanzo di Edoardo Nesi, Storia della mia gente, si parlava della crisi economica che sta attraversando il nostro Paese, una crisi che tocca tutte le categorie sociali della filiera industriale, in primis gli operai che stanno esaurendo le loro energie a causa di una dirigenza imprenditoriale inetta a sorreggerli. 

Questa inettitudine è frutto di una politica che, da un lato, ha trasformato efficienti industriali in meri servitori dello Stato attraverso sottili mezzi di propaganda che deviavano l'attenzione verso situazioni che non rispecchiavano la realtà (si veda l'articolo scritto da Barbara Spinelli su La Repubblica, L'irruzione della realtà), dall'altro sta provocando una serie di reazioni a catena dannose per un Paese come l'Italia tanto che neppure i giornali online e cartacei hanno potuto, negli ultimi mesi, sottrarsi dal sottolineare l'angoscia (come l'ha definita Francesco Manacorda nell'editoriale apparso su La Stampa il 13 settembre)  nella quale siamo precipitati.

Siamo di fronte ad una svolta epocale che sta avendo ripercussioni anche sul mondo filosofico e sul pensiero comune. E' come svegliarsi dopo un lungo sonno e vedere che, attorno a noi, la situazione non solo è cambiata ma addirittura peggiorata. E sembra non ci sia una la parola fine a questo periodo senza speranza e senza futuro. 

A farci riflettere, dal punto di vista filosofico, è stato Maurizio Ferraris che ha scritto il manifesto del New Realism apparso su La Repubblica l'8 agosto. Ferraris spiega come sia necessario restituire una nuova identità al realismo che, secondo il mondo postmoderno, "è stato considerato una ingenuità filosofica e una manifestazione di conservatorismo politico. La realtà, si diceva ai tempi dell’ermeneutica e del pensiero debole, non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri pensieri e dai nostri sensi". 

La copertina del saggio di Zygmunt
Bauman, Il buio del postmoderno
Ferraris, a questo punto, si pone e, ci pone, una domanda: "che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero, o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica?". In questo modo si mette in discussione la teoria della società liquida di Bauman il quale ha appena dato alle stampe il suo nuovo saggio, Il buio del postmoderno, edito da Aliberti. Il filosofo parla dell'Europa, della sua identità e dei flussi migratori, le nuove forme di potere e di distribuzione della ricchezza, le paure e le ansie generate dalla globalizzazione, precisando che la nostra società è in continuo mutamento, è inafferrabile, impossibile da classificare in compartimenti stagni. Secondo Bauman, stiamo ancora vivendo in una società liquida. 

Ferraris non sembra della stessa opinione di Bauman, ridefinendo le parole-chiave del New Realism ovvero "Ontologia, Critica, Illuminismo". In pratica Ferraris vuole ridare smalto e valore al "realismo" ma anche alla "verità" e ai "fatti" attaccando un filone di pensiero filosofico che da Nietzsche ("non esistono fatti ma solo interpretazioni") fino ad Heidegger.

Al dibattito pubblico hanno partecipato anche altri filosofi, come Emanuele Severino che, prendendo le distanze da questo pensiero filosofico, asserisce, in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 31 agosto, che "se il realismo della scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo senso comune, allora è una tesi filosofica, è cioè quel realismo filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al nuovo realismo, stando al modo in cui esso è stato presentato". 

Così dicendo Severino addita una certa leggerezza e anche alcune lacune filosofiche al pensiero di Ferraris (sostenuto anche da Umberto Eco). A riprova della validità della sua tesi, Severini sottolinea che "non può esserci esperienza umana di ciò che esiste anche quando l'umano non esiste; e quindi l' affermazione che la realtà è indipendente dall'uomo finisce anch'essa con l'essere una semplice fede o quella forma di fede che è il grado anche più alto di probabilità". 

Fermezza, scetticismo, leggerezza, comunque voglia di discutere e parlare di questo tema che, proprio in un periodo , come direbbe Bauman, "buio" porta l'uomo a porsi delle domande. Le risposte, o meglio l'inizio di un cammino da percorrere, potrebbe essere rappresentato dal Convegno internazionale organizzato proprio da Maurizio Ferraris che si terrà a Bonn nella primavera del 2012 e al quale parteciperanno filosofi come Paul Boghossian, Umberto Eco e John Searle, oltre a due giovani colleghi di Severino, Markus Gabriel (Bonn) e Petar Bojanić (Belgrado). 
Nel frattempo non possiamo che documentarci per non arrivare digiuni a questo appuntamento. 

sabato 17 settembre 2011

Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi

"Non è vero che il mondo è piccolo, non è neppure vero che è un villaggio globale, come pretendono i mass media. Il mondo è grande e diverso. Per questo è bello: perché è grande e diverso, ed è impossibile conoscerlo tutto". 



Quando Tabucchi ha scritto queste parole, riportate nel libro Viaggi e altri viaggi (edito da Feltrinelli nell'autunno del 2010), probabilmente si trovava al molo di Alcantara, in Portogallo, oppure seduto a uno dei bistrot in quella piccola ma suggestiva piazza nella quale sfocia Rue Jacob,  a Saint-Germain-des-Prés, Parigi. Ce lo immaginiamo con penna e fogli tra le mani. Silenzioso, assorto. 

Antonio Tabucchi, una vita dedicata alla scrittura per la quale nutre un amore viscerale, ha viaggiato tra le città d’Italia, d’Europa e anche oltre oceano, fino a toccare l’Australia. Un navigatore d’altri tempi, conoscitore di popoli e culture, appassionato della vita in ogni sua forma. Viaggiatore e scrittore, oltre che colto uomo di lettere e storia, capace di incantare il pubblico con la sua dialettica da oratore, Tabucchi ha aperto una finestra, grazie al libro Viaggi e altri viaggi, su una parte della sua vita: durante l'infanzia comincia il suo viaggio, aiutato da una buona dose di fantasia, dal libro L’isola del tesoro e dall’atlante De Agostini. In questo periodo della sua vita iniziò a farsi un’idea di ciò che avrebbe potuto essere il mondo che lo circondava. Ben presto scoprì che l’atlante dava una visione molto riduttiva del mondo che, in realtà, era complesso e, nella sua complessità, affascinante. 

Ed ecco che parte. Lo si vede a Firenze, Pisa (la città tanto cara al Leopardi), nella Genova di De André, in Francia, alla scoperta di angoli che non trovano spazio sulle guide turistiche, in Spagna, Portogallo, Grecia e ancora India, America e Australia per un convegno. Ma la cosa che potrebbe sorprendere, e nella quale risiede la forza di questo libro, è che mai nessun viaggio è stato pensato per un racconto. Lui stesso, infatti, asserisce che il contrario sarebbe cosa stolta, “come se uno volesse innamorarsi per poter scrivere un libro sull’amore”. E questo perché la scrittura stessa è “viaggio fuori dal tempo e dallo spazio”. 

Le parole di Tabucchi sembrano stonare con il periodo storico che stiamo attraversando, l’Italia in primis. Eppure in lui c’è consapevolezza di questo momento, una delle pagine nere della storia italiana, e difatti c’è rammarico mentre guarda Genova, ricordando i giorni in cui l'hanno “stuprata” e gli sembra di risentire la voce di Paolo Conte “più roca del solito, con una strana fessura, come il suono di un vetro incrinato”. 

La lezione di vita che Antonio Tabucchi trasmette attraverso questo libro, dovrebbe essere tramandata di padre in figlio, dovrebbe comparire nei libri di storia, scritta sui muri, urlata, graffiata sulla pelle, incisa. Forse solo in questo modo molte domande inizierebbero a trovare una risposta.


--

Questa recensione è stata pubblicata il 18 febbraio 2011 sulla testata giornalistica online Direttanews (www.direttanews.it). Ho volutamente modificato la parte finale per non renderla anacronistica. Di seguito il link:
http://www.direttanews.it/2011/02/18/viaggi-e-altri-viaggi-antonio-tabucchi-riscopre-il-mondo/

venerdì 16 settembre 2011

Di fama e di sventura: l'ultimo romanzo di Federica Manzon

Trovare il proprio posto nel mondo, il proprio destino, la vocazione. E soprattutto le risposte alle domande che la vita ci pone. E' ciò che tenta di fare Tommaso, il protagonista del romanzo di Federica Manzon, Di fama e di sventura, edito da Mondadori e arrivato tra i finalisti del Premio Campiello.
Attraverso una scrittura incalzante che gioca sul confine che separa il ricordo autobiografico dall'intreccio narrativo, l'autrice presenta al pubblico l'epica quotidiana di Tommaso e dei personaggi che lo hanno accompagnato nella sua crescita, con i quali ha condiviso gioie ed emozioni ma anche dolori e sofferenze, e contro i quali, talvolta, si è trovato a combattere. 
Ogni epos cela in sé storia e mito. Di fama e di sventura presenta la storia di Tommaso che si intreccia, inevitabilmente, a quella degli altri personaggi; vari livelli di realtà all'interno delle storie tendono a subire delle mutazioni, perché tramandate oralmente o perché affidate a ricordi nebulosi.

Trovare il proprio posto nel mondo, il proprio destino, la vocazione. E soprattutto le risposte alle domande che la vita ci pone. E' ciò che tenta di fare Tommaso, il protagonista del romanzo di Federica Manzon, Di fama e di sventura, edito da Mondadori e arrivato tra i finalisti del Premio Campiello.
Attraverso una scrittura incalzante che gioca sul confine che separa il ricordo autobiografico dall'intreccio narrativo, l'autrice presenta al pubblico l'epica quotidiana di Tommaso e dei personaggi che lo hanno accompagnato nella sua crescita, con i quali ha condiviso gioie ed emozioni ma anche dolori e sofferenze, e contro i quali, talvolta, si è trovato a combattere. 
Ogni epos cela in sé storia e mito. Di fama e di sventura presenta la storia di Tommaso che si intreccia, inevitabilmente, a quella degli altri personaggi; vari livelli di realtà all'interno delle storie tendono a subire delle mutazioni, perché tramandate oralmente o perché affidate a ricordi nebulosi.

In quest'ottica è da leggere la storia di Vittoria, nonna di Tommaso, ammaliante e sognatrice ma anche determinata e alle volte caparbia, pronta a difendere le sue scelte e i suoi diritti in un periodo storico (siamo agli inizi del Novecento) che lascia poco spazio alla voce femminile e al ruolo della donna sia tra le mura domestiche sia nella società. Vittoria, la cui infanzia è segnata dal trauma per il suicidio del padre sotto gli occhi di tutti i familiari, dovrà sposare, seguendo le usanze del periodo, un uomo che non ama e quindi sarà costretta a calarsi nei panni di una moglie che non avrebbe mai voluto essere. Eppure Vittoria non si arrende, prende in mano la situazione facendosi strada in un mondo maschilista.

Sarà la nonna Vittoria a crescere Tommaso. La sua vita è segnata da una serie di abbandoni, in primis la madre che morirà il giorno del parto e il padre, di cui non saprà nulla, neppure il nome. Tommaso cresce scrutando le stelle, simboliche rappresentazioni di ciò che si nasconde nella nostra psiche. Alle stelle pone le domande alle quali lui non è in grado di rispondere. 
L'ambiente nel quale cresce è caratterizzato da credenze popolari, superstizioni ma anche pettegolezzi maligni che feriscono l'animo fragile di Tommaso, il quale cerca di reprimere la sua vera natura, soffocando la rabbia per le ingiustizie subite e rifugiandosi negli abbracci della nonna. 

Eppure proprio Vittoria, sulla quale conta Tommaso, non riuscirà, o non vorrà, aiutare il nipote a trovare la sua strada e quindi la sua vera natura, a dare un senso alla sua vita e a guardare in faccia il futuro. Abbandonato, se così si può dire, anche dalla nonna, Tommaso cresce con un senso di rivalsa, una sete di vendetta e con la voglia di strappare il sorriso maligno a coloro che lo hanno da sempre additato come un "perdente". Lascerà Trieste per andarsene oltreoceano e tentare la carriera finanziaria.
Nonostante questa scelta, che potrebbe implicare una decisione saggia da parte del protagonista, nella speranza di trovare il proprio destino e la propria vocazione, Tommaso abbraccerà una vita che non lo rispecchia, muterà il suo animo, farà emergere quella parte negativa e spietata che non lo rappresenta ma che, al contrario, celerà il suo animo buono. La dicotomia buono-cattivo potrebbe far pensare alla dicotomia vero-falso: ciò che davvero è Tommaso, quindi la sua vera natura, che viene svilita prima e annientata dopo da una persona che, solo nell'apparenza, è Tommaso. 

Tommaso si lancia in un mondo, quello della finanza, che sottovaluta. Già segnato da anni di soprusi e ingiustizie, solo contro adulti che non lo capiscono (così come non era stata capita nonna Vittoria), il protagonista del romanzo cerca di trovare se stesso calzando però i panni sbagliati, illudendosi di avere trovato la propria strada.
Oltre agli archetipi che troviamo sparsi tra le pagine del libro e alla scrittura incisiva che sottolinea le sfaccettature dell'animo di Tommaso e della nonna Vittoria, simbolica è anche la copertina del libro, un ragazzo che si tuffa nel vuoto, così come ha fatto Tommaso.