L'usage de la photo: anatomia di un incontro tra parole e immagini nella scrittura di Annie Ernaux

Nuovamente immersa nella scrittura di Annie Ernaux. Impossibile distaccarsi di questa lingua così avvolgente, così nostra. Qui, una mia traduzione di un passaggio tratto da L'usage de la photo (Gallimard, 2005), scritto a quattro mani con Marc Marie. Si tratta di un'opera intima e profondamente evocativa che intreccia immagini e parole per esplorare memoria, corpo e desiderio. Il libro nasce dall'osservazione di fotografie scattate durante la relazione tra i due autori, diventando una sorta di diario visivo e narrativo. Ernaux, con il suo stile asciutto ma penetrante, riflette sulla vita, sulla malattia e sulla caducità. Un viaggio nell'intimità, dove il quotidiano si trasforma nel piano per la comprensione per interrogarsi sul senso del tempo e della memoria.

[Per farsi un'idea su chi è Annie Ernaux e sul suo rapporto con la scrittura rimando a “L'écriture comme un couteau”. Entretien avec Frédéric-Yves Jeannet  e "Dentro la scrittura di Annie Ernaux"]






In quel periodo della mia vita


Vestiti e scarpe sono sparsi lungo tutto il corridoio d'ingresso, rivestito di grandi piastrelle chiare. In primo piano, a destra, un maglione rosso — o forse una camicia — e una canottiera nera che sembrano essere stati strappati e rivoltati contemporaneamente. Assomigliano a un busto scollato, amputato delle braccia. Sulla canottiera, molto visibile, c'è un'etichetta bianca. Più in là, un paio di jeans blu accartocciati, con la cintura nera. A sinistra dei jeans, la fodera rossa di una giacca rossa distesa come uno straccio. Sopra, un paio di boxer blu a quadretti e un reggiseno bianco, con una spallina che si allunga verso i jeans. Sullo sfondo, una grossa scarpa maschile, tipo stivale, è rovesciata accanto a un calzino blu appallottolato. Rimaste in piedi, distanti l'una dall'altra e orientate in direzioni perpendicolari, ci sono due décolleté neri. Ancora più lontano, spuntando da sotto il termosifone, si intravede una macchia nera, forse un maglione o una gonna. Dall'altro lato, lungo il muro, un piccolo ammasso bianco e nero, impossibile da identificare. Sullo sfondo si distingue un attaccapanni con l'estremità di un trench coat, la cui cintura penzola. Una luce di flash illumina la scena, sbiancando le piastrelle e il termosifone, facendo brillare la pelle del décolleté ripreso di profilo.


In un'altra foto della stessa scena, scattata da un'angolazione diversa, dal telaio di una porta, si vedono l'altra scarpa maschile e l'altro calzino, isolati, davanti ai gradini di una scala.


Cerco di descrivere la foto con uno sguardo doppio, uno appartenente al passato, l'altro al presente. Ciò che vedo ora non è ciò che vedevo quella mattina, quando scesi le scale prima di colazione, trovandomi nel corridoio d'ingresso con il ricordo umido della notte. È una scena i cui elementi, a un primo sguardo, non sono del tutto definibili, in un luogo che non corrisponde a quello che vivo quotidianamente. Mi appare più grande, con piastrelle immense. A dire il vero, non mi è né estraneo né familiare, ma semplicemente ha subito una distorsione nelle dimensioni e un’esaltazione di tutti i colori.


La mia prima reazione è cercare di scoprire nelle forme degli oggetti delle figure, come davanti a un test di Rorschach in cui le macchie sono sostituite da capi di abbigliamento e biancheria. Non sono più nella realtà che ha suscitato la mia emozione e poi la fotografia di quella mattina. È la mia immaginazione che decifra la foto, non la mia memoria. Ho assolutamente bisogno di allontanarla, di non averla più nel mio campo visivo, affinché, dopo un po', mi arrivino immagini della primavera del 2003, in una sorta di rievocazione differita.


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