La voracità linguistica di Gadda apre una riflessione sulle attuali lacune della lingua italiana.
Sembra un'affermazione lapidaria che mira a descrivere una realtà crudelmente menomata. In parte è così ma c'è molto di più. La riflessione è nata in seguito alla lettura dell'articolo di Sergio Zavoli, Se le parole non parlano, pubblicato nell'inserto culturale di domenica 24 giugno de IlSole24ore. Zavoli ha scritto un interessante articolo sullo stato della lingua italiana nell'era digitale (se così posso permettermi di riassumere) asserendo che "il computer ha già trasformato la parola in un impulso elettronico dovuto allo sviluppo della produzione serializzata" e, sulla base di questo, Zavoli scrive che "c'è anche chi si domanda se non si stia tornando a una sorta di cultura prealfabetica, omologante e semplificata, cioè in un qualche modo tribale".
Se è vero, come afferma Zavoli, che non si può negare il rischio di un tracollo linguistico definitivo, di un "impoverimento lessicale e creativo che potrebbe determinarsi se il sistema dell'intelligenza artificiale, e dei linguaggi comunicativi connessi, pretendesse di ridurre il senso come prima dimensione, e dignità, della parola", è ugualmente significativo come lo sperimentalismo linguistico, promosso proprio dai linguaggi comunicativi connessi all'intelligenza artificiale, stia producendo un massiccio accumulo di materiali letterari e narrativi che, spesso, rivelano un modo di fare letteratura e cultura sconosciuto alla tradizione letteraria italiana di alcuni decenni fa ma sintomatico di un mutamento continuo del valore della parola stessa e, di conseguenza, della letteratura. Tuttavia non si può non prendere atto di un pericolo incombente: si tratta della molteplicità e dell'abbondanza di materiali letterari e narrativi che rischiano di sovraccaricare la rete provocando un'indigestione di contenuti. Legato a questo fenomeno vi è un altro pericolo (evidenziato dalla stesso Zavoli) ovvero "la perdita di centralità, e persino d'identità" della parola. In questa dimensione la letteratura "è alla ricerca di una nuova legittimazione dello stile" (Zavoli).
In un contesto del genere come riconsegnare dignità alla letteratura e il giusto valore (potere) alle parole? Tra le letture mattutine mi sono imbattuta ne l'Adalgisa di Gadda. La scrittura umoristica di Gadda, conoscitiva di una Milano che odora di fabbriche e lacrime, penetrante tanto nelle misere vite dei personaggi quanto nel capoluogo lombardo stesso, mi ha allarmato sulle lacune di cui soffre la lingua italiana oggi (e quindi sul valore delle parole nelle opere letterarie contemporanee), e ho ripensato all'articolo di Sergio Zavoli letto poco prima. Se penso al potere e alla responsabilità della parola mi viene in mente un saggio di Pierantonio Frare, edito da interlinea un paio d'anni fa, il quale portava come esempio Dante, Manzoni e Primo Levi sottolineando come la forza della parola servì a Levi per superare il trauma subìto. Allo stesso modo la parola portò alla redenzione Dante, al contrario la parola "ingannatrice" (come avrebbe detto Pasolini) sarà fatale per il personaggio manzoniano Gertrude.
L'urgenza letteraria, spesso contaminata dal fanatismo lessicale, spinge verso una generazione che si nutre della parola nuda. Nel 2009 Luca Serianni parlava della perdita di un "linguaggio controllato". Un anno prima vi era stato un ciclo di otto incontri indetti dall'Accademia della Crusca centrati sull'insegnamento dell'italiano.
Le parole di cui si nutre il linguaggio parlato e scritto e il loro indomabile impoverimento, lo sperimentalismo linguistico che sta nascendo (da qualche anno a questa parte) proprio sul web e la conseguente eccedenza di materiali letterari in rete, sono fattori che potrebbero essere analizzati e risanati partendo dal sistema scolastico del nostro Paese e, quindi, dall'humus culturale nel quale il sistema stesso è inserito puntando, come ricorda Armando Massarenti in un articolo pubblicato domenica 24 giugno ne l'inserto de Il sole24ore, sulla ricerca, innovazione e cultura.
Che si vada verso la perdita di centralità non è poi una gran scoperta, è qualcosa di connaturato con il web.
RispondiEliminaDel resto, quanti anni ha l'italiano? La diffusione come lingua parlata sul territorio nazionale risale alla Grande Guerra, ma se proprio vogliamo... al trecento? Beh, al più ha settecento anni, e non durerà in eterno, soprattutto se cerca di resistere a una naturale evoluzione, con innesti, vicoli ciechi e vere e proprie rivoluzioni, come il web.
A me, sinceramente, il cambiamento non fa paura. Voglio dire, già negli ultimi decenni molte cose sono cambiate: l'uso di "lui" come soggetto, l'uso limitato delle "d" eufoniche, l'introduzione di parole nuove come "perplimersi" (introdotto da un comico, per inciso, non dal web).
Insomma, mi pare che la tesi miri a correlare l'evoluzione della lingua e il web, senza contare che in questo caso, come anche in altri, la correlazione non è necessariamente lineare.
Saluti.
In realtà cercavo di dire, sulla base appunto di alcune riflessioni, che il web sta creando e promuovendo uno sperimentalismo linguistico interessante da osservare e da maneggiare (mi viene da pensare a certi fenomeni letterari che stanno nascendo su twitter) tuttavia riconosco che questa pluralità talvolta appare eccessiva per l'uomo (che ha un limite - ma qui andiamo su un piano filosofico e se ne potrebbe parlare per ore.) Nell'oceano di materiali letterari-narrativi spesso si confondono e si disperdono quelli "meritevoli di attenzione", le cui parole hanno un forte impatto emotivo.
EliminaIl cambiamento non deve far paura, però porta a delle riflessioni...
Grazie per il tuo intervento