Ho iniziato a leggere Hemingway da ragazzina e devo dire che non ci capivo molto, all'epoca. Però non riuscivo a distogliere gli occhi da quei dialoghi levigati e bruschi al tempo stesso, dalla semplicità delle sue parole, dal suo mondo così lontano e diverso dal mio, non riuscivo a distogliere gli occhi dai nomi. Come chiamava le cose, non come le descriveva. Era tutto quello che alla letteratura italiana mancava.
E quindi anche se ero poco più di una bambina e il mio mondo era differente da quello che raccontava Hemingway, continuai a leggerlo, il fatto di non capirci molto non mi allontanava dai suoi libri, al contrario ne ero ancor più affascinata. Con gli anni ho ritrovato molte delle vibrazioni di questo grande e unico scrittore in altri autori americani che, sicuramente, si sono formati proprio sui suoi libri.
All'epoca andavo spesso in biblioteca, si può dire quasi ogni giorno. Un pomeriggio di grigiore padano, con la stanchezza nelle ossa, mi venne consigliato un libro che, secondo la bibliotecaria, mi sarebbe piaciuto molto dal momento che divoravo Hemingway. Si tratta di Tenera è la notte. Non sapevo chi fosse Francis Scott Fitzgerald e con l'inconsapevolezza e l'ingenuità dei miei undici anni iniziai a leggere quel libro trattandolo come fosse la Bibbia. Da allora penso di averlo riletto almeno cinque o sei volte.
Ho conosciuto Fitzgerald attraverso i suoi libri. E devo dire che è stato uno degli incontri più belli della mia vita. Credo che se fossi nata tra l'Ottocento e il Novecento negli Stati Uniti, avrei sicuramente fatto di tutto per poterlo incontrare almeno una volta. Sono sempre stata attirata da uomini come lui, misteriosi, travolgenti, con una vita incasinata e tante ferite nel cuore, l'impossibilità di scindere il privato dal pubblico, la necessità di parlare di un malessere generale, di una disperazione collettiva, quella di un'intera generazione, la certezza di essere frainteso, capito a metà.
Un tipo di uomo così lo sento molto affine a me, per come sono fatta e per come vorrei essere.
Aveva ragione la biblotecaria (è andata in pensione qualche anno fa, che donna!), ho amato Fitzgerald fin dall'inizio. Se tra le pagine di Hemingway ho scoperto una scrittura semplice e vibrante, tra quelle di Fitzgerald ho ritrovato quelle stesse vibrazioni amplificate, esasperate da una disperazione profonda, da un'angoscia mascherata da perbenismo.
E' facile considerare Fitzgerald come lo scrittore della Jazz Age, smorzare le potenzialità della sua scrittura concentrando l'attenzione del pubblico essenzialmente sulla sua vita disordinata e difficile. Persino Woody Allen non ha saputo resistere e, in Midnight in Paris, lo ha rappresentato con un bicchiere in mano accanto a una Zelda alticcia nel bel mezzo di una festa in cui tutti sembrano divertirsi tranne loro stessi.
E così, di nuovo, sembra spostarsi l'attenzione dallo scrittore e dalla sua produzione letteraria al personaggio, in particolare al periodo che lo ha visto unito a Zelda (nonostante i personaggi femminili delle sue opere e di molti racconti siano ravvisabili in Ginevra, ragazza di buona famiglia residente a nord di Chicago, che lo aveva respinto in quanto appartenente a un ceto sociale inferiore). Ecco che i due incarnano l'aspetto di giovani spericolati le cui sfortune si abbattono sulle loro vite mondane.
Tuttavia è impensabile considerare la materia letteraria di Fitzgerald senza tenera conto della sua vita. Scott Donaldson è riuscito a dare lustro alla produzione dello scrittore senza con ciò relegarlo in situazioni stereotipate. Nel saggio Fool For Love, Donaldson spiega come Fitzgerald, spinto dalla volontà e dal bisogno di piacere agli uomini, tralascia ciò che lui vuole veramente. "I suoi compagni di Princeton lo consideravano troppo curioso e frivolo. Il padre di Zelda lo riteneva inaffidabile. Ernest Hemingway, il più vicino degli amici, alla fine lo tratterà con disprezzo". Questo emerge in modo lampante soprattutto nel romanzo Tenera è la notte in cui Diver, costretto a piacere a tutti coloro che lo circondano, diventa inconcludente lavorativamente parlando, e arriva a distruggere la sua carriera.
"Fu in quell'atmosfera di disgusto per la volgarità borghese della pseudo-ricchezza da un lato e per l'incapacità e la debolezza della pseudo-aristocrazia dall'altro che Scott crebbe, a disprezzare e insieme invidiare i ricchi e gli aristocratici; di fronte agli aristocratici provando insieme invidia per le nobili origini e disprezzo per l'inefficienza, e di fronte ai ricchi provando insieme disprezzo per la volgarità e invidia per l'efficienza e l'energia" (Fernanda Pivano, La balena bianca e altri miti, Milano, il Saggiatore, 1995).
Come afferma Fernanda Pivano, la scrittura di Fitzgerald è una continua denuncia che si esplica nella sua stessa vita, "di giovane respinto dalla fidanzata per mancanza di soldi con una ferita che non si sarebbe rimarginata mai più, e di marito che per guadagnare quei soldi sprecò, spesso consapevolmente, il suo talento scrivendo racconti da poco."
Con Il Grande Gatsby, portato adesso al Festival di Cannes da Leonardo di Caprio, Fitzgerald viene riproposto, rivisto, messo nuovamente in discussione e con lui le speranze, le illusioni e le disillusioni di un'intera generazione, quella che l'amico Hemingway chiamò, giustamente, perduta.