giovedì 16 maggio 2013

"Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno" ovvero, guardando Kafka



Da giorni sentivo il bisogno di riprendere in mano l'ironica ed entusiastica scrittura di Philiph Roth, la delicatezza connotativa, l'instancabile necessità di conoscere, la sapienza letteraria. E l'ho fatto con un libro tradotto da Norman Gobetti, edito per Einaudi nel 2011 "Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno" ovvero, guardando Kafka.

Intorno alla primavera degli anni Settanta, Philiph Roth si recò a Praga dove conobbe Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. La conoscenza di tale disperazione e solitudine lo colpì molto avvicinandolo ancor più alla figura di Kafka, uomo prima ancora che scrittore. Successivamente conobbe Vera Saudkova, una delle nipoti di Kafka. Fu lei a raccontare a Roth della famiglia di Kafka, la madre e le due sorelle morte ad Auschwitz. Lei gli mostrò le foto e i suoi luoghi di lavoro. Qualche anno dopo, Philiph Roth si recò a Londra dove conobbe Marianne Steiner, un'altra nipote, figlia della sorella Wally.

Guardando Kafka appare come un accurato dipinto di uno dei maggiori scrittori del primo Novecento, una sorta di testamento elaborato da un caro amico di Kafka. Il lavoro di Roth, le ricerche e la profonda conoscenza delle sue abitudini quotidiane oltre che delle opere, comprese quelle incompiute, riempiono le pagine di immagini suggestive, cadenzate da uno stile asciutto e nitido.

Se nella prima parte Roth dipinge la figura di Kafka con un linguaggio saggistico incline, tuttavia, ai sentimenti e alle fascinazioni, facendo leva sul vuoto emotivo che accompagnò, fino alla fine dei suoi anni, la vita stessa di Kafka, nella seconda parte la magia di una narrativa a metà tra realismo e invenzione apre le porte a uno scenario attraente in cui la rielaborazione della vita di Kafka si intreccia a quella di Roth stesso. E' qui, a mio avviso, che si scorge l'acume e la finezza letteraria ai quali, per anni, Philiph Roth ci ha abituati.

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