Nessuno può portarti un fiore di Pino Cacucci.
Non sono qui per chiedervi
né vita né perdono
ma per dimostrare a tutti
chi veramente sono:
non un assassino, un ladro o un traditore
ma un essere qualunque, con una testa e un cuore
(Carlo Giuliani)
L’unico modo per far rivivere la storia è raccontarla. E riprendendo in mano l’ultimo romanzo di Pino Cacucci, Nessuno può portarti un fiore (Feltrinelli, 2012), penso a quella frase di Dario Fo, quasi un grido all’umanità tutta, “la cultura non la si può ottenere se non si conosce la propria storia”. Con la sua ruvida scrittura, con quel tono graffiante e accorato, Cacucci getta luce sul circolo vizioso creato dalle ingiustizie scavando nella memoria collettiva e ridando voce a personaggi che la storia ha voluto affossare sotto ad una coltre di silenzi. Antonieta, Sylvia, Edera, Lulù, Horst, sono solo alcuni dei volti che, attraverso le parole di Cacucci, raccontano la loro vita associata nel corso degli anni, con troppa facilità, a un bailamme giuridico che ha screditato tanto queste vittime inconsapevoli, quanto il nostro stesso “disgraziato paese”.
Sarà proprio Edera a giudicare l’Italia un paese disgraziato, la ragazza bella e sfrontata di Monterenzio, la ragazza con il cuore agitato da un impeto che non conosceva precedenti, a spronare i suoi coetanei perché salvino l’Italia, perché non è sufficiente nascondersi, bisogna armarsi di coraggio e prendere in mano la situazione. Ogni capitolo del libro è dedicato a giovani ribelli, a ragazzi impulsivi, animati da un fervore nostrano che risponde ad un bisogno comune: ritrovare la speranza nel futuro, riuscire a coltivare i sogni che, talvolta, con estrema crudeltà e con grande sagacia, sono stati frantumati, imbrattati e insanguinati di vergognosi insulti.
Ho sfiorato il dolore di Antonieta, una ragazza che, nei primi decenni del Novecento, ha speso l’eredità paterna per promuovere l’arte d’avanguardia e i musicisti, una donna di grande cultura, traduttrice di André Gide, autrice di saggi e articoli di critica teatrale. Antonieta ha difeso la sua libertà culturale fino alla fine, ma nulla ha potuto salvarla da una solitudine maldestra causata da chi, suo marito in primis, non è riuscito a capire quanto era vasto il suo cuore e quanto erano grandi i suoi sogni. Mi sono buttata a capofitto nella storia di Sylvia Ageloff, una vicenda intricata in cui i servizi segreti russi e il fanatismo stalinista uccisero la sua dignità di donna oltre agli ideali nei quali credeva. Ho sofferto per Horst Fantazzini, quell’uomo che i benpensanti hanno giudicato un caso irrimediabile ma, a ben guardare “come si può giudicare il gesto di un uomo che ha subìto trentaquattro anni di non vita senza aver tolto mai la vita a nessuno?”.
In apertura Pino Cacucci riporta i versi di Carlo Giuliani: “non sono un assassino, un ladro o un traditore, ma una persona qualunque con una testa e un cuore”. E nel contempo, che leggo e rileggo, queste parole masticate tra lacrime e rabbia, ripenso ai versi di una canzone di De André, Città vecchia, “se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. E penso anche al volto triste del poeta davanti alla sua città, a quei corpi maltrattati, ai sogni violentati. Quegli stessi corpi e quei stessi sogni che Cacucci ha voluto far rivivere.
Ormai è fatta.
Sarà proprio Edera a giudicare l’Italia un paese disgraziato, la ragazza bella e sfrontata di Monterenzio, la ragazza con il cuore agitato da un impeto che non conosceva precedenti, a spronare i suoi coetanei perché salvino l’Italia, perché non è sufficiente nascondersi, bisogna armarsi di coraggio e prendere in mano la situazione. Ogni capitolo del libro è dedicato a giovani ribelli, a ragazzi impulsivi, animati da un fervore nostrano che risponde ad un bisogno comune: ritrovare la speranza nel futuro, riuscire a coltivare i sogni che, talvolta, con estrema crudeltà e con grande sagacia, sono stati frantumati, imbrattati e insanguinati di vergognosi insulti.
Ho sfiorato il dolore di Antonieta, una ragazza che, nei primi decenni del Novecento, ha speso l’eredità paterna per promuovere l’arte d’avanguardia e i musicisti, una donna di grande cultura, traduttrice di André Gide, autrice di saggi e articoli di critica teatrale. Antonieta ha difeso la sua libertà culturale fino alla fine, ma nulla ha potuto salvarla da una solitudine maldestra causata da chi, suo marito in primis, non è riuscito a capire quanto era vasto il suo cuore e quanto erano grandi i suoi sogni. Mi sono buttata a capofitto nella storia di Sylvia Ageloff, una vicenda intricata in cui i servizi segreti russi e il fanatismo stalinista uccisero la sua dignità di donna oltre agli ideali nei quali credeva. Ho sofferto per Horst Fantazzini, quell’uomo che i benpensanti hanno giudicato un caso irrimediabile ma, a ben guardare “come si può giudicare il gesto di un uomo che ha subìto trentaquattro anni di non vita senza aver tolto mai la vita a nessuno?”.
In apertura Pino Cacucci riporta i versi di Carlo Giuliani: “non sono un assassino, un ladro o un traditore, ma una persona qualunque con una testa e un cuore”. E nel contempo, che leggo e rileggo, queste parole masticate tra lacrime e rabbia, ripenso ai versi di una canzone di De André, Città vecchia, “se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. E penso anche al volto triste del poeta davanti alla sua città, a quei corpi maltrattati, ai sogni violentati. Quegli stessi corpi e quei stessi sogni che Cacucci ha voluto far rivivere.
Ormai è fatta.
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