Ho sempre amato l'aneddottica. Riempie la narrativa, si avverte l'umanità che sta dietro la narrativa, si avverte quel non so che di realismo magico che si è andato un po' sgretolando, nel corso del tempo, nella nostra cultura letteraria. Leggere di Gianni Berengo Gardin che, negli anni Cinquanta, in un bar milanese, mostra alcuni suoi recenti lavori a un amico critico fotografico mentre alle spalle qualcuno sbircia le foto e solo allora interviene nella discussione facendo complimenti e proponendo di portare i lavori al proprio giornale (si trattava di Leo Longanesi e il giornale in questione era Il Borghese) è qualcosa che reca il sapore delle cose passate ma fa capire l'humus culturale di quegli anni, così lontani, non solo cronologicamente, dall'epoca che stiamo vivendo.
È sempre un po' bizzarro il modo in cui Gardin si accosta e sperimenta la fotografia, con quell'aria da timido appassionato che vuole raccontare ma ancora non ha idea degli strumenti da utilizzare. Prima la collaborazione a Il Borghese, una grande scuola per un'anima così giovane e prima ancora la fotografia sociale americana grazie ai libri inviatogli da Cornell Capa tramite uno zio ebreo emigrato in America. Il racconto sociale è diventato il suo campo d'indagine, il reale senza sbavature, lontano dalla retorica, nessuna caduta verso la banalità. La ricerca, senza tregua e senza soste, della storia da raccontare.
Gianni Berengo Gardin – Storie di un fotografo è la mostra in esposizione a Milano, Palazzo Reale a cura di Denis Curti fino all'8 settembre 2013.