Primo appuntamento con Vittorio Sereni



Nel centenario della sua nascita, Corsi e Rincorsi vuole dedicare uno spazio privilegiato alla poetica di Vittorio Sereni e al rapporto con il suo tempo. Iniziamo questo percorso con Strumenti Umani, la terza raccolta di Sereni edita da Einaudi nel 1965

Vittorio Sereni affida un'intensità espressiva attraverso la vicenda personale alla sua terza raccolta poetica, Strumenti umani. Si tratta di una voce matura che raccoglie le istanze dei lavori precedenti, Frontiera e Diario d'Algeria, e che forte di questa maturità cerca di donarle un'impronta nuova che si pone nei confronti del suo tempo, come dichiarò Luzi al Convegno di poeti tenutosi a Luino nel maggio del 1991, come la "poesia di un'età decentrata, nel senso più proprio di questo termine; cioè di un tempo postumo rispetto a una sua stagione di fede e di plenitudine e anticipato rispetto a una nuova concretezza".

Gli studi di Sereni risentono di una poetica crepuscolare ancorata tuttavia al tessuto realistico, affondano le mani nella volontà di vivere un tempo contraddittorio che sta implodendo. E' forte la lezione di Banfi, all'epoca docente di Storia della Filosofia ed Estetica, la crescita spirituale sulla quale l'intero gruppo banfiano ha basato la vita, oltre che gli studi, e il consecutivo impoverimento morale, la mancanza di certezze, l'infinito oscillare tra inquietudine e trepidazione.

Sereni risolve, per così dire, questa tensione con quello che Caproni definì "l'intatta necessità dell'atto poetico", traducendo la sua vicenda umana personale nell'umanesimo seppur "atterrito dalla propria fragilità" (Fortini).

Appuntamento a ora insolita 

La città – mi dico – dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino…
«…asciuga il temporale di stanotte» – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
«Asciuga al sole le sue contraddizioni»
- torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
- d’angelo avrei detto in altri tempi -
risorto accanto a me nella vetrina:
«Caro – mi dileggia apertamente – caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?».
Ha vinto. E già mi sciolgo: «Non
arriverò a vederla» le rispondo.
(Non saremo 
più insieme, dovrei dire). «Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…
giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia».

Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, – mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…».

Ma dove sei, dove ti sei mai persa?

«È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.

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