Ancora sul libro “L'écriture comme un couteau”. Entretien avec Frédéric-Yves Jeannet nel quale Annie Ernaux esplicita il suo approccio alla scrittura e rende conto della sua “posture d'écrivain”. Un estratto. Per leggere i i precedenti cliccare qui, oppure qui
La transizione verso questo altro "io" nei romanzi è avvenuta in modo naturale o è stata difficile per lei? Cosa l'ha spinta ad abbandonare una scrittura più "letteraria", benché di uno stile familiare, in favore di un'altra scrittura che definirei "clinica", che alcuni chiamano "bianca" e che lei chiama "piatta" ne La Place stessa?
Credo che tutto in La Place – la sua forma, la sua voce, il suo contenuto – sia nato dal dolore. Quel dolore che ho provato nell'adolescenza, quando ho iniziato ad allontanarmi da mio padre, ex operaio e proprietario di un piccolo caffè-drogheria. Un dolore senza nome, un misto di senso di colpa, incomprensione e ribellione (perché mio padre non legge, perché ha "modi grezzi", come si dice nei romanzi?). Un dolore di cui ci si vergogna, che non si può confessare né spiegare a nessuno.
E poi c'è stato l'altro dolore, quello per averlo perso improvvisamente, nel momento in cui ero andata a passare una settimana dai miei genitori dopo aver, in fondo, realizzato il suo sogno di ascesa sociale per me: ero diventata insegnante, passata in quell'altro mondo, quello per cui noi eravamo "gente modesta", quel linguaggio della condiscendenza... Dovevo scrivere di mio padre, del suo percorso di contadino diventato piccolo commerciante, del suo modo di vivere, ma farlo in un libro giusto, che corrispondesse al ricordo vivo di quel dolore.
Ho tentato a lungo, per cinque anni. Nel 1977, scrissi cento pagine di un romanzo che non ebbi voglia di continuare, perché mi trasmetteva un forte senso di falsità, la cui origine mi sfuggiva e di cui non comprendevo la causa, dato che la scrittura e la voce erano le stesse dei libri precedenti. Nel 1982, intrapresi una riflessione difficile, durata circa sei mesi, sulla mia condizione di narratrice proveniente dal mondo popolare, che scrive, come diceva Genet, nella "lingua del nemico", utilizzando il sapere-scrivere "rubato" ai dominanti. (Questi termini non sono, come si potrebbe pensare, esagerati; ho avuto a lungo – e forse lo sento ancora – la percezione di aver conquistato il sapere intellettuale per effrazione.)
Al termine di questa riflessione, sono giunta a questa conclusione: l'unico modo giusto per evocare una vita, apparentemente insignificante come quella di mio padre, senza tradire (né lui né il mondo da cui provengo e che continua ad esistere, quello dei dominati), era di ricostruire la realtà di quella vita attraverso fatti precisi, attraverso le parole ascoltate. Il titolo che avevo dato a questa impresa per diversi mesi – La Place, che si è imposto solo alla fine – era abbastanza chiaro sulle mie intenzioni: Elementi per un’etnologia familiare. Non si trattava più di un romanzo, che avrebbe derubricato la reale esistenza di mio padre.
Non era neanche più possibile utilizzare una scrittura affettiva e violenta, che avrebbe dato al testo una colorazione populista o miserevole, a seconda dei momenti. L'unica scrittura che mi sembrava "giusta" era quella di una distanza oggettivante, senza affetti espressi, senza alcuna complicità con il lettore colto (complicità che non è del tutto assente nei miei primi testi). È ciò che ho definito in La Place come "la scrittura piatta", la stessa che usavo quando scrivevo ai miei genitori per comunicare loro le notizie essenziali.
Quelle lettere a cui faccio riferimento erano sempre concise, al limite dello spoglio, senza effetti di stile, senza umorismo, tutte cose che sarebbero state percepite da loro come "modi" o "maniere affettate". Attraverso questa scelta di scrittura e in essa, credo di assumere e superare la lacerazione culturale: quella di essere un'“immigrata interna” della società francese.
Porto nella letteratura qualcosa di duro, di pesante, persino di violento, legato alle condizioni di vita, alla lingua del mondo che è stato completamente il mio fino ai diciotto anni, un mondo operaio e contadino. Sempre qualcosa di reale.
Che si voglia collegare questo modo di scrivere alla scrittura "bianca" definita da Barthes, o al minimalismo, è una questione che riguarda i ricercatori in letteratura, il cui compito è determinare correnti, classificare, lavorare su documenti, comparare, e così via. Per me, prima di scrivere, non c’è nulla: solo una materia informe, fatta di ricordi, visioni, sentimenti, ecc. Tutto il lavoro consiste nel trovare le parole e le frasi più giuste, quelle che faranno esistere le cose, che permetteranno di "vedere", dimenticando i singoli termini per essere dentro ciò che percepisco come una scrittura del reale.
Anche se questa formulazione può sembrare vaga o discutibile, se non avesse un senso nel momento in cui scrivo, di certo non passerei ore su un singolo paragrafo…