Mia regina di Jean-Baptiste Andrea. Einaudi
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Intenso, straziante, crudele. Shell è un ragazzo "strano", diverso da molti ragazzi della sua età. Mi piace pensare che sia un sognatore che osserva l'altopiano, dove si trova la stazione di servizio dei suoi genitori. Shell scappa di casa, una serie di eventi lo spingono tra le braccia di una ragazza di poco più grande che lo prende per mano facendogli scoprire una realtà immaginifica. Lei sarà la sua Regina, fino alla fine. Un percorso di crescita che lo porterà alla scoperta dell'uomo che c'è in lui. Nel frattempo, Shell conosce Matti, il montanaro silenzioso che lo aiuta e lo protegge, che lo ascolta e lo tratta come un vero uomo, come Shell vorrebbe essere trattato.
Eppure il momento idilliaco si spezza sotto al peso della realtà, quella cruda realtà.
Uno squarcio tra le stelle, "una serata pazzesca" nell'estate del 1965, l'estate più speciale di tutte.
A forza di sentirmi dire che ero solo un bambino, e che andava benissimo cosí, è successo l’inevitabile. Ho voluto provare loro che ero un uomo. E gli uomini fanno la guerra (...).
Una volta mio padre lustrava regolarmente le pompe, ma poi l’età e la penuria di clienti lo avevano fatto desistere. A me però mancavano le pompe tirate a lucido. Non me le lasciavano piú lucidare da quando, l’ultima volta, mi ero completamente inzuppato e mia madre me ne aveva dette di tutte i colori, come se non avesse già abbastanza da fare con un marito sfaticato e un figlio ritardato.
Eppure il momento idilliaco si spezza sotto al peso della realtà, quella cruda realtà.
Uno squarcio tra le stelle, "una serata pazzesca" nell'estate del 1965, l'estate più speciale di tutte.
A forza di sentirmi dire che ero solo un bambino, e che andava benissimo cosí, è successo l’inevitabile. Ho voluto provare loro che ero un uomo. E gli uomini fanno la guerra (...).
Una volta mio padre lustrava regolarmente le pompe, ma poi l’età e la penuria di clienti lo avevano fatto desistere. A me però mancavano le pompe tirate a lucido. Non me le lasciavano piú lucidare da quando, l’ultima volta, mi ero completamente inzuppato e mia madre me ne aveva dette di tutte i colori, come se non avesse già abbastanza da fare con un marito sfaticato e un figlio ritardato.
Un fulmine di guerra. Un’aquila. Una cima. Non ero niente di tutto questo: me lo sentivo ripetere in continuazione. A questo punto devo proprio dirlo: sono un tipo strano. A me non sembra, ma agli altri sí.
Non so contare e, quando provo a scrivere, le lettere mi si aggrovigliano in testa, restano impigliate nel braccio ed escono dalla penna come un nido di spaghetti. Per questo ho dovuto abbandonare la scuola. Le cose piú semplici erano un’impresa per me. In teoria avrebbero dovuto mettermi in un istituto speciale, ci avevano anche dato un opuscolo pieno di foto di bambini in corridoi spaziosi e con delle persone sorridenti che gli posavano la mano sulla spalla. Ma dalle nostre parti non esistevano scuole del genere e tutti se ne infischiavano, io per primo. E cosí ho cominciato a lavorare alla stazione di servizio.
Sono salito sulla roccia e sono rimasto a guardare mentre diventavano sempre piú piccoli: lei, il suo vestito e il suo occhio nero, non piú grandi di un arbusto, di un filo d’erba, di un insetto, un puntino insignificante nell’orizzonte ondulato.
Viviane ha tirato fuori di tasca qualche barretta di cioccolata, una mela, un pezzo di formaggio. Di colpo mi è venuta una gran fame, non avevo mangiato piú niente dopo i corbezzoli e ho divorato tutto come un orso. Poi ci siamo sdraiati sotto il cielo tondo: ho immaginato che ci trovassimo sotto un
telescopio gigante, e qualcuno all’altra estremità forse ci stava osservando in quel momento. Ero sul punto di salutare con la mano, ma mi sono trattenuto per non fare la figura dello scemo. Viviane ha mosso i piedi e si è girata verso di me.
– Cosa facciamo?
Adesso però avevo una regina e sapevo che avrei fatto qualsiasi cosa per lei, non perché avevo giurato, ma perché mi andava. Ho pensato che forse essere un eroe voleva dire proprio questo: fare qualcosa che nessuno ti obbliga a fare.
Non so contare e, quando provo a scrivere, le lettere mi si aggrovigliano in testa, restano impigliate nel braccio ed escono dalla penna come un nido di spaghetti. Per questo ho dovuto abbandonare la scuola. Le cose piú semplici erano un’impresa per me. In teoria avrebbero dovuto mettermi in un istituto speciale, ci avevano anche dato un opuscolo pieno di foto di bambini in corridoi spaziosi e con delle persone sorridenti che gli posavano la mano sulla spalla. Ma dalle nostre parti non esistevano scuole del genere e tutti se ne infischiavano, io per primo. E cosí ho cominciato a lavorare alla stazione di servizio.
Sono salito sulla roccia e sono rimasto a guardare mentre diventavano sempre piú piccoli: lei, il suo vestito e il suo occhio nero, non piú grandi di un arbusto, di un filo d’erba, di un insetto, un puntino insignificante nell’orizzonte ondulato.
Viviane ha tirato fuori di tasca qualche barretta di cioccolata, una mela, un pezzo di formaggio. Di colpo mi è venuta una gran fame, non avevo mangiato piú niente dopo i corbezzoli e ho divorato tutto come un orso. Poi ci siamo sdraiati sotto il cielo tondo: ho immaginato che ci trovassimo sotto un
telescopio gigante, e qualcuno all’altra estremità forse ci stava osservando in quel momento. Ero sul punto di salutare con la mano, ma mi sono trattenuto per non fare la figura dello scemo. Viviane ha mosso i piedi e si è girata verso di me.
– Cosa facciamo?
Adesso però avevo una regina e sapevo che avrei fatto qualsiasi cosa per lei, non perché avevo giurato, ma perché mi andava. Ho pensato che forse essere un eroe voleva dire proprio questo: fare qualcosa che nessuno ti obbliga a fare.
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