Questo matrimonio non s'ha da fare - Crisi di famiglia e genitorialità: dialoghi con Mattia Morretta
«Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento.»
Lady Lazarus e altre poesie (Mondadori, 1998), trad. it. G. Giudici
Una voce autentica, poetica e profonda che attraversa lo spazio e il tempo: pochi versi magnetici che incantano e ammaliano, che attingono alla materia inafferrabile dell'Uomo. Eppure la Plath ci prova, sonda l'inesplorabile, si spinge oltre i confini. La forza della sua comunicazione ci inchioda alla pagina. La stessa forza evocativa, la stessa capacità di metterci con le spalle al muro, la ritroviamo nell'ultimo libro di Mattia Morretta, Questo matrimonio non s'ha da fare - Crisi di famiglia e genitorialità, (Gruppo editoriale Viator) che ci riconsegna una più profonda significazione di amore, di genitorialità, di matrimonio, di coppia e di famiglia. E lo fa con una tenacia comunicativa che travolge e coinvolge, trasformando il lettore in un soggetto attivo.
Ho avuto il piacere di intervistare l'autore, addentrandomi nei temi trattati nel libro.
Partiamo dal tema dei matrimoni per interesse che stanno alla base di quella che lei chiama, nel primo capitolo, "la strategia diplomatica" dei letti combinati che ha raggiunto l'apice nel XVI secolo. Usi e costumi della società che si riflettono nell'arte. "L'apoteosi artistica del tema" è rappresentata da La Camera degli Sposi del Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova. La storia ci insegna che poco è cambiato: lei stesso nel primo capitolo fa un interessante excursus antropologico e sociologico sulle dinamiche matrimoniali che non sempre percorrono gli stessi binari delle emozioni. Se oggi non assistiamo, con la frequenza di un tempo, ai matrimoni combinati, assistiamo ugualmente a delle unioni che sono ben lontane dall'aver sancito il Sogno d'Amore. Cambiano i tempi, restano i vincoli. Ma non sono proprio questi vincoli che portano a quell'inevitabile infelicità di cui parla Buzzati ne Le notti difficili? La stessa infelicità che, nel contemporaneo, viene riempita solo in apparenza dal rumore della comunità social? Che cosa resta, dunque, dopo aver chiuso gli occhi, "fingendo di non vedere/non sapere" per consolidare e salvaguardare il matrimonio?
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento.»
Lady Lazarus e altre poesie (Mondadori, 1998), trad. it. G. Giudici
Una voce autentica, poetica e profonda che attraversa lo spazio e il tempo: pochi versi magnetici che incantano e ammaliano, che attingono alla materia inafferrabile dell'Uomo. Eppure la Plath ci prova, sonda l'inesplorabile, si spinge oltre i confini. La forza della sua comunicazione ci inchioda alla pagina. La stessa forza evocativa, la stessa capacità di metterci con le spalle al muro, la ritroviamo nell'ultimo libro di Mattia Morretta, Questo matrimonio non s'ha da fare - Crisi di famiglia e genitorialità, (Gruppo editoriale Viator) che ci riconsegna una più profonda significazione di amore, di genitorialità, di matrimonio, di coppia e di famiglia. E lo fa con una tenacia comunicativa che travolge e coinvolge, trasformando il lettore in un soggetto attivo.
Ho avuto il piacere di intervistare l'autore, addentrandomi nei temi trattati nel libro.
Partiamo dal tema dei matrimoni per interesse che stanno alla base di quella che lei chiama, nel primo capitolo, "la strategia diplomatica" dei letti combinati che ha raggiunto l'apice nel XVI secolo. Usi e costumi della società che si riflettono nell'arte. "L'apoteosi artistica del tema" è rappresentata da La Camera degli Sposi del Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova. La storia ci insegna che poco è cambiato: lei stesso nel primo capitolo fa un interessante excursus antropologico e sociologico sulle dinamiche matrimoniali che non sempre percorrono gli stessi binari delle emozioni. Se oggi non assistiamo, con la frequenza di un tempo, ai matrimoni combinati, assistiamo ugualmente a delle unioni che sono ben lontane dall'aver sancito il Sogno d'Amore. Cambiano i tempi, restano i vincoli. Ma non sono proprio questi vincoli che portano a quell'inevitabile infelicità di cui parla Buzzati ne Le notti difficili? La stessa infelicità che, nel contemporaneo, viene riempita solo in apparenza dal rumore della comunità social? Che cosa resta, dunque, dopo aver chiuso gli occhi, "fingendo di non vedere/non sapere" per consolidare e salvaguardare il matrimonio?
“Ti vedo meglio al buio / l’amore è un prisma che supera il violetto”, scrive Emily Dickinson nel suo consueto stile obliquo. Reale e immaginario sono dimensioni del vivere che non vanno mai confuse e fatte coincidere, farsi guidare dai sogni a occhi aperti nella veglia produce sovente molti danni a differenza di quelli a occhi chiusi durante il sonno. Nel libro rilevo che l’epoca romantica ha cantato l’amore appassionato quale emblema di emancipazione dalle ipocrisie e convenzioni, tanto che sino a metà del Novecento gli amanti erano testimoni dei sentimenti non piegati alle logiche istituzionali ed economiche, in contrasto con l’addomesticamento borghese dei sentimenti teso a conservare l’ordine costituito e i patrimoni. Le figure tipiche del romanticismo (Romeo e Giulietta, Paolo e Francesca, i moderni protagonisti di Titanic) immortalano amori tra giovani o giovanissimi, contrastati dal prossimo (il che rafforza la tensione unitiva) e brevi, la morte giunge propizia nel momento del culmine dell’intesa fusionale. Tutta un’altra storia la durata, la quotidianità, il “per sempre”, che parla di un’affettività calmierata e ammaestrata (Penelope non è emblema di amore, bensì di fedeltà). Mrs Giles Oliver, nell’ultimo romanzo di Virginia Woolf Tra un atto e l’altro, rimasto allo stadio di manoscritto, pettinandosi al mattino nella camera matrimoniale vede nella specchiera nel proprio sguardo il riflesso dell’innamoramento per un uomo col quale si è incontrata due o tre volte: “l’amore segreto era negli occhi, l’amore esposto sulla toeletta”, tra le scatole d’argento, la spazzola per capelli, gli spazzolini che richiamano l’affetto per il padre dei suoi figli, “scivolando nel cliché comodamente servito dai romanzi”.
Ciò che in un dato contesto storico aveva valenza liberatoria e persino civile (per una minoranza di forti o l’élite intellettuale), nella attuale massificazione è un falso ideologico, quando non un onirismo che sfocia nell’incubo. Dico, infatti, che “love è diventato uno psicofarmaco da banco auto-somministrato, una droga o un cordiale a basso prezzo, per le masse di piccoli e grandi consumatori che si accontentano di acquistarne confezioni usa e getta”. Così tante mani sul petto e cuoricini ovunque, tanto amore dichiarato e sbandierato sugli schermi sociali, e così poca affettività nelle interazioni minute e nei luoghi di aggregazione. Ecco perché invito a sorvolare l’area del disastro per rendersi conto dello sfaldamento dei nuclei famigliari, le cause giudiziarie onerose e traumatizzanti, i legami patologici e criminali, il mercato dell’infanzia, e via elencando i sintomi di ciò che è definito in termini sociologici “collasso sociale”.
Per inciso, il reato di induzione al matrimonio ovviamente riguarda le giovani di altre etnie e religioni costrette a sposarsi, visto che per noi la forzatura e la pressione a sistemare la faccenda sono venute meno, almeno sui grandi numeri e nelle forme note sino a qualche decennio fa. Non si fa abbastanza attenzione al fatto che la libertà nella sfera amorosa comporta degli oneri, non è puro sollievo da imposizioni esterne. Se si è liberi di far di testa propria, non si può accusare nessuno degli sbagli e dei fallimenti relazionali, l’intera colpa grava sui singoli e li schiaccia, tanto che in caso di compromissione o conflittualità si tende a proseguire a testa bassa per vergogna e disperazione, fomentando l’infelicità e la morbosità (chi è causa del suo mal pianga se stesso, se l’è voluta). Una volta si sopportavano frustrazioni domestiche per gli altri o per altro (religione, tradizioni culturali, funzioni da espletare, figli minori, quieto vivere, interessi finanziari), perciò si reggeva di più e ci si poteva ritagliare una parte di identità separata (non sono proprio io, non sono interamente dentro il ruolo). Ora siamo noi origine e causa della qualità dei rapporti, una responsabilità pesante che i più non sanno e non possono assumere proficuamente. Per questo sostengo che nei secoli precedenti si era accuratamente cercato di scongiurare la privatizzazione dei legami e la loro autoreferenzialità. I vincoli istituzionali costituivano il debito verso la collettività, un’operazione di rappresentanza che consentiva spazi e tempi di trasgressione, le maschere si potevano togliere anche se per poco, oppure accettando di incorrere nella riprovazione e nella condanna, quindi si realizzava una selezione dei caratteri più determinati e/o delle passioni più intense.
Ora ci resta solo il rimpianto degli affetti semplici, non sofisticati e non commerciabili dell’era precedente al consumismo e all’edonismo di massa, il fare l’amore in una dimensione davvero privata, un’intimità che consentiva di sentirsi in comunicazione a dispetto dei dazi del mondo, un piacere stra-ordinario (non ordinario) e un sentimento “vero” (atteso e vissuto per tale) cui abbandonarsi con fiducia. Naturalezza e privatezza sono definitivamente archiviate, il “voler bene” personalizzato è impossibile (un bene perduto), la favola bella che ieri ci illuse. Quando è normativo godere e patire in modi definiti e prescritti si ha inversione del processo ed espropriazione di immaginazione, agibilità, soddisfazione intime.
Nel secondo capitolo lei associa il matrimonio ad un'azienda tanto che, cito, "il matrimonio necessita di una mentalità imprenditoriale (...) nella quale sesso e sentimento sono risorse tra le altre e non le principali". E' una frase molto forte, che pone l'accento su qualcosa che, solitamente, si cerca o si tenta di non vedere. Eppure non sembra essere così distante da quanto affermava Jean Claude Kaufmann: "L’amore è l’esatto contrario della scelta. Rappresenta il rifiuto di valutazioni di tipo scientifico, il rifiuto di guardare in faccia la realtà per poter vedere soltanto il lato positivo delle cose". Come si sposa questa affermazione di Kaufmann con il suo pensiero?
È soprattutto in gioventù che si è “afferrati” dalla passione amorosa, poiché ciascuno deve versare un tributo all’Eros, in quantità differenti in base a sensibilità, temperamento, dotazione costituzionale, “il peccato d’amore” che norme religiose e civili tentavano in passato di prevenire o subito riparare. Perché c’è un cuore che ha ragione e che controbilancia il pensiero logico, e un cuore che porta fuori strada o da nessuna parte, vincolando a “padroni” e “autorità”, in base allo schema parentale per cui i ruoli sono, anche contemporaneamente o alternativamente, quelli del grande che manipola e controlla o il piccolo che si affida e dipende. Su un piatto della bilancia l’amore è ostacolo a occupazioni utili e rimpicciolimento dei pensieri (amore indegno), sull’altro piatto sprone e conforto a ben operare (amore degno che innalza, migliora e addolcisce). “La parola amore esiste” era il titolo di un film di successo degli anni Novanta del secolo scorso, il che va inteso alla lettera ed invece è di solito frainteso dando per scontato che sia l’amore a esistere. Sono il vocabolo e il linguaggio amoroso ad avere effetto e attivare l’infatuazione e la credulità, il vero e proprio incantesimo (significato di carmen). Chi crede nell’amore si sente bene emotivamente (per attivazione chimica di dati centri nervosi) e pure migliore (nobile o puro), ignorando la malattia, la possessione e la schiavitù, anzi vede e sente nell’amare (affezionarsi) un’espressione di libertà, un credito contro i debiti, un piacere rispetto ai doveri (casa, famiglia, lavoro, compiti sociali). Dice Ovidio che il cuore crede felice tutto ciò che spera e crede vero sempre ciò che teme. Dobbiamo aver presente che siamo pre-disposti, e non tutti in egual modo, ma non capaci di affettività o in grado di spendere beneficamente la variabile e limitata dotazione affettiva. Conta che sia in gioco un aggrappamento o un attaccamento, se il legame sia rigido o elastico.
Lo scrittore Jan McEwan ha dato della Sindrome di de Clérambault (che prende il nome dall’autore che l’ha descritta nel 1942), frequente nelle donne, una versione al maschile nel romanzo inquietante L’amore fatale (1997), avanzando dubbi sull’esistenza di un amore “ragionevole”, non “estremo” e soprattutto “autentico”. Molti studiosi parlano di “sconfinamenti patologici dell’amore”, che si sovrappongono all’esperienza amorosa normale. D’altronde, si dichiara con compiacimento di far pazzie o morire/far morire per amore, la fantasia di commettere un “delitto d’amore”, uccidendo e poi uccidendosi è più comune di quanto si creda, e non riguarda solo i casi di cronaca nera. Quando si parla di “movente passionale” non si indica l’affettività, se mai il ri-sentimento, cioè il rovescio del sentimento, sempre compresente e con la stessa matrice impulsiva, viscerale e irrazionale. L’aveva intuito Platone che nel Fedro paragona l’anima a una biga trainata da due cavalli, uno bianco, che tende verso l’alto, e uno nero, che tira verso il basso.
L’amore e la sessualità sono sempre almeno una imprudenza, quando non un rischio certo. Siamo indifesi di fronte agli assalti delle emozioni e dei sentimenti chiamati impropriamente “amorosi”, oggi più che mai perché nessuno ci mette in guardia. In particolare siamo vulnerabili in momenti critici e di passaggio dal punto di vista sia fisico sia psichico o morale: “Ognuno ha il cuore aperto, vedete, quando ha superato un forte dolore o sta ritrovando la salute” dice saggiamente la signora Smith dal suo letto di malattia in Persuasione di Jane Austen (1818). E con identiche parole si esprime Justinus Kerner in In der Nacht: “e d’amore / alle ferite un troppo aperto cuore” (1857). Non per nulla Emily Dickinson, sottolineando la somiglianza con la cognata Susan Gilbert nella freddezza di fronte alle galanterie maschili, diceva con orgoglio: “Penso di avere un cuore duro, di pietra”.
Il matrimonio, dunque, come impresa famigliare a tutti gli effetti all'interno della quale la donna ha (o dovrebbe avere) un ruolo mansueto, docile e arrendevole al punto giusto, equilibrato e disponibile. La donna funge da psicofarmaco per i malesseri fisici e spirituali del marito e compagno di vita. In questo modo la donna idealizza non solo la figura del marito stesso ma anche l'idea di Amore (ecco che si inserisce la frase della Mitchell tratta da Via col vento: "Ho amato qualche cosa costruita da me"): sono queste le donne "perennemente in amore e che amano troppo cioè fanno dell'attaccamento una affezione nel senso medico". Marie-France Hirigoyen ha dedicato un lungo e dettagliato saggio alle donne che non riescono a sfuggire, per le più svariate motivazioni spesso ravvisabili nel rapporto tossico con i genitori, a matrimoni oscurati dalle molestie morali e dalle violenze perverse. Che cosa può dire al riguardo e quale peso può avere un tipo di relazione così squilibrata nella contemporaneità?
L’accoppiamento è il gran teatro del mondo, un vero ballo in maschera, perché gli uomini civilizzati sono in sostanza animali in costume. Le sceneggiate familistiche dei politici del Nord-America durante le campagne elettorali sono un libro aperto, sul palcoscenico i vincitori con moglie e figli al seguito per sottolineare solidità e normalità dell’esistenza personale, finché non vengono a galla le macchie e le nefandezze umane troppo umane. Il sistema di manipolazione del consenso soddisfa la domanda di illusioni amorose a buon mercato con prodotti approssimativi ed evocativi, effetti speciali, fiere e industria del giorno più bello, mentre prima e dopo devono intervenire enti pubblici, organizzazioni non governative, forze dell’ordine per tenere insieme le coppiette crepate irreparabilmente come anfore d’argilla, oppure avvocati, terapeuti ed esperti a vario titolo per tentare di rammendare una tela strappata e consunta, troppo sottile e delicata, che i più credono nuova e candida. Dietro le quinte arrancano e incattiviscono le famigliole care alla pubblicità dei centri commerciali e dei grandi marchi, i quali spalancano le porte a tutte le stravaganze dei consumatori (basta che comprino). Tutto ciò che viene definito “sociale” consiste in interventi istituzionali e privati, laici e confessionali, per contenere, correggere, tamponare, ridurre i danni provocati dalle rovine delle unioni posticce e campate per aria, che non solo non costituiscono cellule sociali ma finiscono per rivelarsi mine disintegrative per la collettività.
Le attuali “truffe affettive” (di cui emblematicamente è arrivata a occuparsi una trasmissione come Chi l’ha visto?), gestite da organizzazioni criminali internazionali (con falsi profili e foto rubate), coinvolgono legioni di signore di tutte le età e i ceti, libere e coniugate, analfabete e laureate, delle cui debolezze e del cui infantilismo da primo mondo se la ridono i delinquenti senza scrupoli del terzo mondo. E ognuna confessa e conferma di viversi come oggetto di desiderio e d’amore, innamorandosi di chi le regge davanti lo specchio facendola “sentire donna”, cioè valorizzando la sua femminilità (il lato femminile), chiunque o quasi dica di amarla (a parole e con gesti, poesie e fiori) e magari di volerla sposare. A dispetto delle apparenze e delle trasformazioni, le vesti contemporanee coprono fenomeni tuttora diffusi e mentalità che resistono alla cosiddetta evoluzione dei costumi. Nella sfera amorosa siamo di fatto tra l’incudine del programma istintuale e della biologia e il martello del condizionamento sociale. Un classico cliché vede la donna disponibile ad assecondare qualcuno per affetto, a sacrificare tutto o quasi per l’uomo cui si vota, soprassedendo sulla reciprocità e la qualità del rapporto. Le catene, si potrebbe dire, sono nel cuore, del resto si paragona spesso l’amore a una lama o un dardo nel petto. “Mai seppe la donna / guardarsi dalle fiamme e dalle crude / frecce d’amore. Nuoce meno all’uomo / l’arma del dio”, scrive Ovidio nel Libro terzo de L’arte di amare. La misura della vicinanza è quanto male fa o si sente, dice a sua volta Marina Cvetaeva. Non va trascurato il piacere sensibile, cioè il sentirsi infelici, che fa perdere di vista il fatto di esserlo. La schiavitù è più ambita della libertà, anche perché consente di credersi piene o mosse dalla bontà per sopportare tanto. Inoltre, far comandare e addirittura spadroneggiare l’uomo è un modo subdolo di sentirsene ed esserne nascostamente “padrona”, come la mamma col bambino tiranno. In senso lato e tendenzialmente la donna è pietosa, l’uomo spietato, come un animale nella predazione. La femmina deve aguzzare l’ingegno per sopravvivere in società e incamerare qualche vantaggio (a cominciare dalla procreazione), rispondendo alle richieste dirette e indirette per avere un ruolo, sentirsi riconosciuta e utile (utilizzabile), sapendo bene di non poter contare sulla corrispondenza di investimento e interesse alla relazione, e neppure a dire il vero sull’attrattiva sessuale.
Come si traduce, nella sessualità, un tipo di coppia come quello appena menzionato, dove la donna è "psicofarmaco" e il maschio una specie di superuomo che si sente legittimato nel manipolare e dominare la moglie?
In verità è lei la superdonna (wonder woman), mentre lui è un maschio immaturo, debole, dipendente dalla madre proiettata sulla compagna factotum e totipotente. Molti maschi sono meschini e talora minuscoli, ma ci sono anche tante donnette e piccole donne che non crescono, legioni di esserini senza qualità e spessore. Gli uomini sono sempre stati, presi singolarmente, sesso debole, potendo fungere da rappresentanti del sesso forte grazie all’unitarietà del campo maschile (l’unione che fa la forza), cioè contando sul supporto dei “camerati”, nonché sul silenzioso contributo del “gentil sesso”, disposto ad assecondare e tener su il capofamiglia e il tenutario del comando sociale. Da tempo, esautorati di ruoli su misura, privati di gratifiche virili, di luoghi di iniziazione e ricreazione esclusivi, di apparati e strumenti collettivi di sostegno e cura dell’identità maschile, essi si ritrovano impoveriti, femminilizzati, deficitari, isolati, messi all’indice e all’angolo, con l’unica possibile rivalsa della reazione violenta alle frustrazioni ingravescenti. In particolare, se la donna fatica a staccarsi dai cuccioli e dal nido, l’uomo non sa “perdere”, essendo portato a credere di poter o dover vincere; infatti nelle separazioni subìte la violenza è legata più al vissuto di perdita/sconfitta cui si è costretti che non al venir meno dell’oggetto di attaccamento, oltre al fatto che di solito la donna è terreno coloniale nel quale il maschio esporta la sua femminilità. Per reagire all’abbattimento lui può abbattere se stesso, dandosi il colpo di grazia, oppure eliminare colei che causa il vissuto di mortificazione e femminilizzazione (infantilizzazione e dipendenza). Non va sottaciuto che il cosiddetto gentil sesso fa sovente cattivo uso dei diritti acquisiti sugli “amanti” già nel copione romantico, il che facilita il rovesciamento e il sottosopra vendicativo da parte dell’uomo. Del resto, Oscar Wilde ha espresso in versi l’elemento ambivalente connaturato all’attrazione passionale ne La Ballata del carcere di Reading (1897), prendendo spunto proprio da un caso di cronaca dell’epoca, l’assassinio della giovane amante da parte di un militare:
“Eppure ogni uomo uccide la cosa che ama, / Che questo lo sentano tutti: / Chi lo fa con uno sguardo amaro / E chi con una lusinga, / Il codardo lo fa con un bacio, / Il coraggioso con la spada!
Chi uccide il suo amore da giovane, / E chi lo uccide da vecchio; / Chi lo strangola con le mani della lussuria, / Chi con le mani dell’oro: / I più pietosi usano un coltello, perché / I morti si freddano così presto”.
C'è da dire che sono proprio questi maschi ad essere l'anello debole della coppia: "maschi che hanno debilità strutturali a livello emotivo, mentale o sessuale" e che trovano nella donna l'ancora di salvezza, "la crocerossina-affidataria". Quando viene meno il porto sicuro rappresentato dalla donna, il rapporto può degenerare in atti di vera e propria violenza. Si può parlare, in questi casi, di femminicidio?
Il maltrattamento, l’abuso e la violenza nelle coppie e nelle famiglie sono paragonabili al fuoco amico, finisce per nuocere chi si continuava a reputare dalla stessa parte e invece era e si rivela controparte. In molti suoi racconti Alessandro Spina, evidenziando i due livelli del quotidiano e dell’immaginario, mostra che il viraggio verso la tragedia è latente nei legami sentimentali e che i protagonisti si temono l’un l’altro, rimangono costantemente sulla corda.
Nelle lunghe storie a due, accorpandosi in modo continuativo il possesso diviene presto l’elemento principale, avere ascendente sull’altro e/o subirlo, volentieri o malvolentieri; del resto, ci si mette con chi esercita più “attrazione” su di noi o subisce di più la nostra. Poter esercitare dominio e controllo sulla compagna è per molti uomini più importante del rapporto e finanche dell’atto sessuale, anzi la gerarchia è l’unico motivo del vincolo, perché la donna in sé e per sé non interessa abbastanza e il maschio è avvezzo al modello gerarchico in qualsiasi ambito. La scimmia umana di genere maschile è psicologicamente stimolata e gratificata dall’imposizione sull’oggetto con linguaggio gestuale e sessuale, con sfumature di reificazione che possono esitare nella violenza carnale e della punizione corporale. Lady Ottoline Morrell un secolo faceva nel merito considerazioni interessanti: “Gli uomini vogliono essere sempre padroni delle donne che amano”, tanto è vero che “si può essere la loro compagna, ma non il loro soggetto” (I ricordi di una signora meravigliosa, Seconda parte, VIII). E George Eliot ancor prima notava il secolare vantaggio socio-culturale del sesso forte, la sicurezza per i maschi anche con poco cervello e consistenza di appartenere a una classe superiore, perché “una Provvidenza benevola fornisce alla personalità più fiacca un po’ di gomma o di amido, sotto forma di tradizione” (Middlemarch, Capitolo II). L’uomo si aspetta di essere ammirato e temuto, la donna di essere desiderata e rispettata o tutelata.
I femminicidi all’ordine del giorno da parte di fidanzati, compagni, mariti, riflettono l’aumento esponenziale della conflittualità etero-sessuale persistente e basilare nella vita di tutti i giorni, una bellicosità esplicita e non dissimulata o mitigata da convenzioni, convenienze, ragioni di opportunità. È più facile aggredire o “far fuori” la moglie-compagna quando è vissuta soltanto come una donna qualsiasi, anzi un “partner” (al maschile) col quale si condivide un territorio angusto e isolato, e non rappresenta quindi l’Altro sesso (la Donna con la d maiuscola), con il quale è necessario conservare un rapporto paritetico perché conviene anche al “primo” sesso e non si può “sopprimere” neanche volendo. Essendo rapporti a tu per tu, senza garanzie fornite dalla formalità del vincolo tradizionale e dalla compartecipazione altrui, è più facile lo scivolamento sul terreno dello scontro diretto e impari; l’eventuale presenza di figli non costituisce deterrente, anzi, aumenta gli obiettivi nel mirino, non c’è effettiva triangolazione edipica e prospettiva di accesso alla civiltà tramite microsocietà famigliare. La repressione volontaria della reazione maschile per la manifesta inferiorità fisica femminile è minore perché l’uomo non è e non si sente una colonna portante della comunità e poco può il monito retorico istituzionale o giornalistico (“prima le donne e i bambini”). Adesso la donna ha più potere di manifestare dissenso, reagire, parlare senza essere interrogata, rispondere, non sopporta più in completo silenzio, contrattacca e pone condizioni, supportata però soltanto dalla Legge o dalle belle intenzioni politiche delle “pari opportunità”, pubblicità senza progresso e trasmissioni televisive dedicate al cattivo gusto o al gusto della carne fatta a pezzi. Non c’è da farsi illusioni, un nuovo contratto sociale e un consapevole equilibrio tra i due sessi dovrebbe figurare ai primi posti dell’agenda politica e culturale, specie di un Paese come il nostro caratterizzato dall’analfabetismo sessuale.
Lei afferma che "quando si è insieme da tempo e si sono generati dei figli, a maggior ragione nella piena maturità, il funzionamento coitale macchinale è un assurdo biopsichico perché non ha motivazione intrinseca". Dobbiamo quindi rassegnarci alla finitudine umana?
Rassegnazione è un termine a più valenze, sul piano sociale può implicare adeguamento passivo, su quello psicologico adattamento attivo a situazioni inevitabili producendo cambiamenti evolutivi.
Nella modernità la sessualità di coppia è stata esaltata, la soddisfazione erotica dei partner è diventata una meta e addirittura un obbligo, un dover essere anche salutistico, sino alla terza e quarta età. L’idea di fondo è che il sesso faccia bene, unisca, porti conciliazione, spenga attriti, benché spesso stia al posto della conoscenza, lasci estranei come e più di prima, quando non è una lingua morta che nessun corso accelerato sul punto G o pillola blu può far tornare a parlare. A dispetto delle illusioni circa quel che io chiamo l’addolcimento del pene, supposto nel modello che vede l’interazione sessuale quale panacea o alternativa alla battaglia, non è affatto vero che siano migliorati gli scambi etero-sessuali, come dimostra la frequenza di risoluzione brutale e da giungla dei contrasti tra maschio e femmina troppo adesi visceralmente e dediti all’atletismo erotico. Sicché, non resta che l’inasprimento delle pene per via giudiziaria e carceraria. Quando i partner sono aggrovigliati in maniera indistricabile, tirando un capo si stringe il nodo e si strangola la personalità di entrambi, con effetti differenti a seconda che si tratti di catene, corda, elastico, filo di seta o di cotone. La concentrazione di tutte le esigenze nella coppia o duetto (due più tre), si produce desertificazione civica e indifferenza generalizzata, ma la stessa coppia risulta sovraccarica di aspettative e obblighi, una bomba a orologeria. Se si pretende di avere tutto sotto lo stesso tetto, senza più appoggi sostanziali dall’esterno, interlocutori validi nella rete interpersonale, collaborazioni alla soluzione di problemi (gli altri pensano “fatti loro”), lievitano la frustrazione e l’aggressività, non rimane che rivalersi sui compagni di cattività.
Voglio ribadire che le relazioni oggettuali stabili di cui parla(va) la psicoanalisi non coincidono con i vincoli a due, è all’interno del soggetto che si struttura una attitudine a riparare e salvare i rapporti interpersonali accettando i limiti. Ecco perché valorizzo la solitudine autonoma, evidenziando il ruolo delle persone sole che danno un grande contributo alla collettività (anzitutto portando interamente il peso della loro vita). Sono i legami deboli (amicali e solidaristici) a sostenere le persone e a consentire loro di reggere i legami forti (parenti “stretti”), nonché a tenere in piedi la comunità. Preferire la fiducia al contratto, come scrive Emily Dickinson in un messaggio alla cognata Susan Gilbert, significa valorizzare sia l’incertezza e la fluidità sia la volontarietà e il rispetto di continuo aggiornati con spirito critico, le amicizie infatti si coltivano, come fiori e piante. Solo tra consanguinei i sentimenti non mutano di segno, restando immutabili pur nell’incomprensione e incomunicabilità, si vuol bene o si odia fin da piccoli il fratello o la sorella senza tener conto del loro sviluppo ulteriore.
Genitori si nasce o si diventa? Dispendio di energie psichiche ed emotive: la genitorialità è un concetto e una condizione che sfugge a molte persone anche (e soprattutto) a coloro che sono genitori. Genitori etero, omo, bisessuali, genitori adottivi, biologici... ci si perde in una terminologia infinita dimenticandoci, spesso, dei bambini destinandoli, pertanto, all'infelicità e all'instabilità. Come tutelare i bambini e insegnare al genitore ad assumere il ruolo di guida emotiva e carismatica?
Nel mio saggio consiglio agli aspiranti e ai sedicenti genitori la lettura del romanzo Il quinto figlio (1988) di Doris Lessing, perché la presunzione di essere felici riproducendosi e facendo della famiglia un regno onnipotente è una sfida orgogliosa alla sorte che genera mostri e diffonde più male che bene. Tengo a rilevare che la polemica sulla “gestazione per altri” e le adozioni omosessuali confondono le acque perché di fatto la loro criticità è nella natura egoistica, cioè bambini fatti solo per sé stessi e basta, mentre i figli si mettono al mondo per la specie (natura) e per la comunità (società e cultura). Per questo le politiche per la natalità e la famiglia (servizi, sussidi, assegni, asili nido, congedi parentali) non sortiscono effetti sostanziali, essendo rivolti alle singole coppiette isolate in cellette insonorizzate. Tutte le creature e creazioni (d’arte, cultura, opere materiali e immateriali) sono prodotte per l’umanità, intendendo gli esseri umani che compartecipano la vita, più i posteri che i contemporanei. E questo perché si muore, cioè si è consapevoli della mortalità, e ci si proietta nell’immortalità, non a caso nell’Eneide l’ombra di Anchise nell’Averno rivela a Enea che insieme alle anime dei morti si trovano anche quelle dei futuri nati. Quando si fa un figlio per qualcuno (se stessi, la mamma o il papà, altri in particolare) e non per qualcosa (una meta, una causa, un ideale, l’avvenire, la terra e il cielo, gli dei e Dio), lo si condanna alla contingenza e alla psicopatologia.
I genitori non devono ritenersi né “creatori” (come ricordava Montessori) né generatori, meglio viversi come veicoli, mezzi di trasporto, che è il nocciolo simbolico dell’idea dei bambini portati dalla cicogna. Nel capitolo intitolato L’asse ereditario umano sottolineo che l’identificazione piena nel ruolo materno o paterno è prioritaria nelle fasi che precedono e seguono la nascita di un figlio, oppure l’adozione e l’affido; in seguito dovrebbe gradualmente diventare parziale e secondaria., dando libertà e accettando che i discendenti seguano la loro strada indipendente. I figli possono ben degenerare, risultare peggiori dei genitori e rivelarsi la loro rovina, anzitutto esprimendo componenti recessive negative o slatentizzando patologie.
Ai giorni nostri constatiamo quanti danni produca sui minori la mancanza di coesione e collaborazione della società di adulti, ragazzi che si sentono orfani e arrabbiati perché abbandonati a se stessi e alle loro furie interiori (baby gang, pornografia sui dispositivi elettronici già a dieci anni, droghe di ogni tipo appena possibile). Ci sono genitori che non pensano mai al bene a venire dei loro figli, non fungono da contenitore mentale dei processi evolutivi. Certo, è sempre stato così sui grandi numeri, ma un tempo ci pensavano altri soggetti, esisteva un pensiero condiviso (in un contenitore complessivo), perché nessuna mamma e nessun papà, da soli, possono farcela o bastare al compito di com-prendere ed educare un esemplare di essere umano. Mai i (pochi) figli sono stati così “seguiti” e per giunta individualmente da genitori, nonni e altre figure sociali o terapeutiche, oltre che tutelati da normative (dai seggiolini omologati al casco per la bicicletta); eppure i risultati sono imbarazzanti e fanno rimpiangere l’approccio generico di una volta e gli spazi di indipendenza dei piccoli lontani dagli sguardi dei “grandi”, premessa di emancipazione e creatività. Occorre spirito critico e obbiettività, perché gridando da più di un secolo “abbasso i padri, viva i figli!” non ci si rende conto di lavorare per i demòni, come scriveva Marina Cvetaeva all’epoca della rivoluzione sovietica. Se non ci sono adulti decisi e consci della mortalità ad attendere sulle soglie della maturità i nuovi uomini, non resta loro che il vivere alla giornata e ammalarsi di solitudine.
Per approfondimenti:
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