La vita involontaria di Brianna Carafa: la nuova edizione pubblicata da Cliquot
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista LuciaLibri.
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Infine, lentamente ti dimenticano. Sei ricordato solo in due date
ricorrenti: l’anniversario della tua nascita e quello della tua morte. E poi
basta, più nulla, assolutamente più nulla. Con queste parole Fernando
Pessoa suggella il silenzio che può avere molteplici significazioni:
spirituale, emotivo, letterario. Trovo che a proposito di quest'ultima
significazione si potrebbe disquisire circa Brianna Carafa, scrittrice e
psicanalista del primo Novecento, che proprio dal silenzio letterario è stata
recuperata grazie al lavoro editoriale della casa editrice Cliquot che
recentemente ha pubblicato La vita involontaria, il romanzo che nel 1975 si
posizionò nella cinquina del Premio Strega, pubblicato all’epoca da Einaudi.
È in questa cornice che si colloca La vita involontaria, un romanzo
che incarna quello che Geno Pampaloni negli anni '80 definiva, a proposito di
narrazione Mitteleuropea, "il mito di una felicità dorata e precaria, che
era già presagio di irripetibilità, nostalgia e nevrosi". Di letteratura
Mitteleuropea parla anche Ilaria Gaspari nella prefazione all'edizione Cliquot
ricordando le parole che, sul Corriere della Sera, Claudio Magris riservò al
romanzo definendolo come una delle prove letterarie che ricordava "i
grandi e grigi libri della migliore narrativa mitteleuropea".
Tra queste pagine trova terreno fertile il flusso di coscienza, il
monologo interiore, il conflittuale rapporto con la genitorialità (o con le
figure che vanno a sostituire i genitori), la tensione emotiva nei confronti
del quotidiano che conduce, inevitabilmente, ad uno stato di turbamento e
angoscia continuo. Il lirismo della scrittura accompagna la malinconia
struggente del protagonista, Paolo Pintus, durante tutta la sua vita. È una
malinconia che sfiora un’infelicità costantemente crescente: "mi pareva
che il corpo e, con esso la mia persona, fossero isolati dal mondo, come se
nessuno li avesse mai toccati. Solo il toccare, materialmente, con la mano, ed
essere toccato, carezzare ed essere carezzato, continuare, stringendolo, nel
corpo e nello spirito di un altro essere, avrebbe infranto le fredde e
trasparenti pareti cresciute chissà quando intorno a me". Ma è solo
un'illusione, quella di Pintus. Nessuna donna, nessun amico incontrato sui
banchi di studio (Gabriele, Federico, Thomas), nessun professore, tanto meno i
suoi familiari, nessuno poteva alleviare l'assenza attorno alla quale si
sarebbe inabissata tutta la sua vita.
Da Oblenz (cittadina immaginaria della Germania), Paolo Pintus si
trasferisce a Vallona per seguire gli studi di filosofia. Decisione frutto di
una serie di raggiri, più o meno volontari, dell’amico di scuola Gabriele.
Pintus si lascia sedurre, trasportato dalla fantasia e dalle promesse di un
nuovo inizio. Accortosi ben presto che l’amico non sarà al suo fianco nella
città universitaria, Pintus avverte un disagio crescente e una forte delusione che
lo inducono a pensare di non essere in grado di affrontare la vita che lo
attende.
Sulla sua strada, Pintus fa esperienza di persone che, volontariamente
o meno, lo aiutano a riflettere sulla natura umana, sul significato degli
accadimenti, della realtà dell’essere e del suo manifestarsi. Sarà il suicidio
di uno dei compagni di università a sgretolare le poche certezze alle quali
Pintus si aggrappa con già esigua convinzione. Di nuovo si domanda se sarà in
grado di fare “ciò che gli altri hanno voluto che io facessi. Ma in modo oscuro
e inestricabile, la volontà altrui s’era, malgrado tutto, unita alla mia e
ancora un’enorme speranza attendeva l’opportunità di realizzarsi, immobile e
nascosta come una belva in agguato”.
I tentativi per emergere da quell’humus refrattario a qualsiasi
certezza emotiva sembrano riportarlo al luogo d’infanzia, l’unico in grado di
congiungere l’imperfezione di anime affini all’alterità umana: i “Tetti Rossi”.
Inaspettatamente i “Tetti Rossi” fungeranno da bussola e luogo d’approdo per
Pintus che fin da bambino ha tentato di conoscere l’onda sulla quale vaghiamo
nell’oceano, arrivando probabilmente a capire (come insegna Burckhardt) che noi
siamo quell’onda.
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