L'infinito di amare: intervista a Cettina Caliò Perroni
Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista LuciaLibri.
Puoi leggere l'intervista su LuciaLibri: continua la lettura “Perroni trasfigurava in scrittura la pelle del suo cuore”
...D’altronde
siamo qui per questo, siamo fatti per questo,
per
andarcene sul più bello di qualcun altro, promesse
d’assenza
sempre mantenute, cose che non smettono mai
di
essere state.
Sergio Claudio Perroni,
Un altro vuoto
In seguito alla stesura di alcune
mie annotazioni, poi accolte dalla rivista LuciaLibri, relative al libro L'infinito
di amare. Due vite, una notte di Sergio Claudio Perroni, pubblicato postumo
da La Nave di Teseo, ho avuto la sensazione di non dire abbastanza. Un paio di
giorni dopo, ho scritto una seconda riflessione. Anche in questo caso non mi ha
soddisfatto. Qualcosa mi stava sfuggendo: tracce che non avrebbero raggiunto la
superficie se non mi fossi messa in ascolto. Il corpo è il luogo sul quale la vita
scrive: Virginia Woolf ha provato a insegnarcelo eppure siamo ancora lontani
dal comprendere appieno la portata della sua “lezione”. Ho provato a
ricollegare le tracce ravvisate nel romanzo di Perroni non per completare
un’esegesi (non ho la presunzione di imbattermi in un tale discorso) ma per ripercorrere
il tragitto “prima che scompaia”, e avanzare convinti di conoscere, come ci
insegna Perroni, “la strada nell’invisibile” pur sapendo che a farci “andare
avanti è solo il ricordo di quell’attimo (…) solo la memoria della luce”.
Mi ha guidata Cettina Caliò
Perroni.
Leggendo L'infinito
di amare mi sono soffermata sulle parole di Sergio quando ti ha consegnato la
bozza del libro: «il piacere assoluto di scrivere senza pensare a niente».
Vorrei partire dal piacere che Sergio nutriva per la scrittura, il piacere che
rifletteva anche (e soprattutto) il rigore, talvolta estenuante, ma energico.
Come descriveresti il suo approccio alla scrittura anche in relazione al suo
lavoro di traduttore? Quale connotazione assumono le parole «senza pensare a
niente»?
Sergio amava scrivere. Era solito
dire: “Traduco per pagarmi da scrivere”. Quando parlava del piacere assoluto di
scrivere, si riferiva alla possibilità di abbandonarsi alla scrittura tenendo
conto solo di quello che si è, senza pensare alla tendenza letteraria che va
per la maggiore e si traduce in molte vendite. La sua è una scrittura potente
e, come ho avuto modo di dire, ci si scontra con le sue pagine. E non tutti
hanno voglia di fronteggiare se stessi attraverso la pagina. Per lui la
bellezza e la perfezione linguistica erano dati irrinunciabili. Erano
caratteristiche del suo essere. Scrittura per Sergio era significato e significante:
il contenuto doveva avere un suono preciso. (Un giorno mi piantò un casino
perché dissi “è abbastanza bello”, e lui “quindi non è bello”, e io “come no?”,
“Abbastanza bello, non è molto bello”. Per farti capire l’ossessione per la
perfezione e la precisione della parola). Questo bisogno di dire bene,
ovviamente, lo applicava anche al suo lavoro principale. Poteva rimanere giorni
a pensare come trasferire senza perdere il suono un determinato passaggio.
Parlando di traduzione penso
al suo lavoro sul testo del romanzo Lo straniero di Camus. Nessuno dopo Alberto
Zevi si era accostato al romanzo di Camus. Dobbiamo attendere la traduzione di
Sergio Claudio Perroni per avere una nuova "visione" del libro. Di
recente un amico mi ha detto che quando si traduce si interpreta, si dà una
visione personale. Quanto di personale credi ci sia nel romanzo portato al
cinema da Luchino Visconti nel 1967?
Io credo che quando facciamo
qualcosa, c’è sempre qualcosa di noi che passa. È attraverso i nostri occhi che
vediamo. E attraverso la nostra sensibilità che agiamo. Nel caso della
traduzione, il trasferimento contiene la sensibilità del traduttore, che
interpreta ma solo nel senso che cerca di capire come trasferire al meglio
quello che, inevitabilmente, nel passaggio perde qualcosa. La traduzione è
un’esperienza, un’avventura. La grandezza degli autori fa la differenza. Ci
sono traduzioni per le quali non ci si sente all’altezza e altre per le quali
ci si vergogna quasi di metterci la faccia.
Nell'introduzione all'edizione
del romanzo di Camus tradotta da Sergio, Saviano scrive «chi leggerà Lo
straniero per la prima volta si renderà conto di come la lingua sia una
conquista, e lo capirà anche leggendolo in traduzione». Mi viene da pensare
all'incipit, alle differenze linguistiche (e successive suggestioni emotive)
rispetto alla traduzione di Zevi. Alla luce dell'affermazione di Saviano e
delle diversità comunicative tra le due traduzioni, si può affermare che la
scrittura per Sergio era anche conquista? E da questo punto di vista qual è la
relazione insita in Sergio tra lingua e traduzione?
La scrittura per Sergio era
conquista nel momento in cui si riesce a dire l’animo dandogli anche un suono.
In generale (e questo si riflette nella sua scrittura e anche nel lavoro di traduttore)
la scrittura è rigore, perizia, esercizio continuo. Lui amava le parole perché
era consapevole della profondità di ognuna di loro. Lo avviliva molto vedere
come e quanto massacriamo la lingua usando parole a sproposito, ignorandone o
dimenticandone il significato. E diceva “è una battaglia persa”. Per Sergio la
lingua era un bene vitale da proteggere e usare al meglio.
«Mi manca chiunque». Sono le
parole in quarta di copertina all'edizione Fandango del 1999 del romanzo di
David Foster Wallace, La scopa del sistema. Quali sono le immagini che ti ha
lasciato Sergio a proposito del suo lavoro a contatto con la scrittura di
Wallace?
Sergio amava Wallace perché in
qualche modo lo considerava un elemento di rottura nel panorama letterario. Le
immagini che conservo di Sergio traduttore sono il sorriso soddisfatto quando
traduceva autori che riteneva grandi e riusciva a farli passare senza
danneggiarli, e la stanchezza di tradurne altri che “ignorano cosa sia lingua e
bellezza”.
L'esplorazione della lingua al
centro della sua vita. Al telefono mi hai detto che editava tutto, a volte
correggeva anche testi già pubblicati. Me ne vuoi parlare?
La correzione, l’editing, per lui
era una sorta di riflesso condizionato. Non sopportava gli errori, la
trascuratezza, l’approssimazione. E questo anche nella vita. Se tu vedessi i
libri che ci sono in casa, libri pubblicati, troveresti i suoi segni a matita.
Segni di correzione di refusi, annotazioni su passaggi che non funzionano,
sostituzione di avverbi, correzione di punteggiatura, domande sulla struttura e
sul senso. Sergio è l’esempio di come all’uomo e alla sua vita corrisponda una
scrittura e uno stile.
L'infinito di amare è un testo
che lo ha accompagnato per molti anni. Immagino la continua sovrapposizione tra
l'esperienza e il presente narrativo: la lingua levigata dalle emozioni, un
continuo lavoro di esfoliazione per rimuovere l’eccesso, togliere dalla
superficie ciò che non serve. Una lingua selettiva e rarefatta, trasfigurata
attraverso un preciso corredo di immagini e situazioni. Quanto L'infinito di
amare ha attraversato il suo corpo nel corso del tempo e nello spazio vissuto?
Lui l’infinito di amare lo ha
vissuto, letteralmente. Così come altri suoi testi. Ha trasfigurato in quel
testo la pelle del suo cuore, ogni cosa che è passata su quella pelle e ci ha
lasciato un segno.
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