Il 3 marzo 2021 ricorre il venticinquesimo anno dalla scomparsa di Marguerite Duras. Per l'occasione tento di dipingere un ritratto di Marguerite Duras, il suo rapporto con il gesto di scrivere, con la parola, con il linguaggio, con la memoria e con i limiti. Nessuna pretesa di esaustività, solo il bisogno, quasi una necessità, di ridisegnare una parte del paesaggio durassiano.
«È legittimo domandarsi perché
scriva questi ricordi, perché sottometta a un eventuale giudizio comportamenti
a proposito dei quali faccio sapere che mi dispiacerebbe venissero giudicati.
Senza dubbio per farli venire a galla, semplicemente; ho l’impressione da
quando ho cominciato a scrivere questi ricordi, di dissotterrarli da un
insabbiamento millenario. Sono passati appena tredici anni da quando queste
cose sono accadute e da quando la nostra famiglia si è divisa. Nessun’altra
ragione mi spinge a scrivere se non questo istinto di riesumazione».
La sua voce si libra dalle pagine
Quaderni della guerra e altri testi. Una voce segnata dal dolore e in nome del
quale Duras riscrive una storia passata, già avvenuta. Attraverso i ricordi, Duras costruisce l'impalcatura che sarà la storia delle opere Una diga sul Pacifico e
Il dolore.
Marguerite Duras ritorna, a più
riprese, sul tema della scrittura e sul gesto di scrivere. Ne Il nero
Atlantico, Duras scrive «con i testi, si tratta di abbandonare all’esterno
quello che per sua natura dovrebbe restare intrinsecamente legato alla persona
e accompagnarla fin dentro alla morte. Lo scritto è sottratto alla morte. La
morte viene mutilata da ogni poema scritto, letto, da ogni libro». Fermare i
ricordi, rinchiudere la "verità" nello spazio di una pagina bianca e
lì intrecciare gli ardori, gli amori, le tentazioni, i silenzi e i vuoti, il
buio delle solitudini, le notti e tutto l'indicibile dell'esistere. «Dove non
c’è niente c’è un foglio. È il cominciamento del mondo. Non c’è niente, è
bianco. Poi, due ore dopo, è pieno».
La voce di Duras sembra
interrogarsi sui limiti del linguaggio e della parola poetica. Nel gesto di
scrivere, in questo movimento che permette di portare all'esterno ciò che era
sigillato all'interno, ritrovo le parole di Wittgenstein «Su ciò di cui non si
può parlare, si deve tacere». Eppure, Duras non tace, la voce si eleva, la
parola diventa svelamento, epifania, talvolta assenza, talvolta riempitivo a
scapito del dolore e nonostante il dolore. Cosa fare di fronte a un amore senza
nome? Dare un nome all'innominabile, sottrarre tutto ciò all'oblio.
Oppure rifuggire dalla parola e trasformarla in parola-assenza, come scrive
nell'opera Il rapimento di Lol V. Stein «sarebbe stata una parola-assenza, una
parola vuoto, con un vuoto scavato nel centro, quel vuoto che avrebbe
inghiottito tutte le altre parole. Impossibile pronunciarla, quella parola, ma
forse si poteva farla risuonare. Immensa, sconfinata, come un gong vuoto, li
avrebbe trattenuti mentre volevano uscire, convincendoli dell’impossibile, li
avrebbe resi sordi ad ogni altro vocabolo, li avrebbe chiamati in una sola
volta, loro, l’avvenire, l’attimo». Superare i limiti del linguaggio per
superare il proprio io e misurarsi con le proprie solitudini.
La dissoluzione dei limiti nella
scrittura durassiana viene associata da Anne-Lucile Gérardot agli effetti
dell'alcol in alcuni personaggi delle sue opere, come Moderato cantabile o
Emily L. La tesi prende le mosse dall'idea di dissoluzione di Georges Bataille
nel libro L'Erotisme.
Secondo Bataille siamo tutti
esseri discontinui: «distinti gli uni dagli altri, e gli esseri riprodotti si
distinguono, non solo l'uno dall'altro, ma anche dagli esseri dai quali sono
derivati. Ogni essere, in altre parole, è distinto da tutti gli altri. La sua
nascita, la sua morte, gli avvenimenti della sua vita, possono avere interesse
per gli altri, ma quell'essere è l'unico che vi sia direttamente interessato.
Esso solo nasce, esso solo muore. Tra un essere e l'altro, vi è un abisso. Vi è
discontinuità. Tale abisso si sprofonda, per esempio, anche tra me che parlo e
voi che mi ascoltate. Noi tentiamo di comunicare, ma nessuna comunicazione tra
noi riuscirà mai a sopprimere una differenza costitutiva. Quel che accade a
voi, non accade a me. Noi tutti, voi e io, siamo esseri frammentari». Partendo
da questo assunto, Gérardot mostra come Duras, attraverso l'utilizzo degli
effetti dell'alcol su alcuni personaggi, riesca a dissolvere la discontinuità
tra gli esseri spostando la comunicazione su un piano che potremmo definire
metafisico, un piano dove l'incontro è possibile nella comunicazione del dolore
e della solitudine.
Lo sgretolamento dei limiti del
linguaggio al fine di raggiungere una comunanza tra gli esseri lo notiamo anche
quando Duras parla della sua infanzia: «Ci si mette in certe situazioni così,
imprudentemente, e poi ecco. Non riesco neppure a vedere il corso della mia
vita a distanza di due giorni. Né senza quest’uomo né con lui, come nelle
storie diverse dalla nostra. È vero, confermo quanto dicevo a Veinstein, non si
tratta di sofferenza ma della conferma di una disperazione iniziale, quasi
d’infanzia si potrebbe dire, sì, come se all’improvviso si ritrovasse il senso
dell’impossibile che si aveva a otto anni davanti alle cose, alle persone,
davanti al mare, alla vita, davanti alla limitazione del proprio corpo, davanti
agli alberi della foresta ai quali non si poteva accedere senza rischiar di
uccidersi, davanti alle partenze sui piroscafi di linea, come per sempre,
sempre, davanti alla madre che piange il padre morto in un dolore che sappiamo
infantile e che però ce la può strappare. Lo splendore dell’età dev’essere
questo» (La vita materiale).
Il senso dell'impossibile vissuto
all'età di otto anni suggerisce quell'impossibilità di entrare nelle cose,
sentirsi parte delle stesse, suggerisce quella mancanza d'essere di cui parla
anche in Agatha, da cui nasce l’esigenza di scrivere e riscrivere. «Je crois
que c’est à partir du manque d’être, d’être dans le désir, dans l’amour qu’on
peut dire l’amour, le désir, l’été, l’inceste, c’est à dire le crime». Mancanza
d'essere, amore, desiderio, spazio, tempo, struttura, mito: sono i punti
cardinali che vanno a comporre le storie narrate, quei racconti "ai limiti",
lande silenziose dove la parola diventa poetica.
«Bisogna che ritorni più benevola
verso il libro, che non lo tratti più come un oggetto lesivo, ostile, un’arma diretta
contro di me. Che cosa è successo? È come se imparassi che non tutto può
rientrare nell’ambito della scrittura, che questa si ferma, lo si voglia o no,
davanti a porte che sono chiuse mentre io credo il contrario, che essa attraversi
tutto, anche le porte chiuse, poco importa il perché».
Il palcoscenico è pronto, lo
spazio scenografico vuoto, dal fondo una luce illumina la scena. È la voce di Marguerite
Duras, trafigge la platea. Nell'assenza è presente.
A Marguerite Duras ho dedicato
uno dei tre capitoli del mio ultimo libro, L'evento della scrittura.
Sull'autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato
da 13lab Editore e che vedrà la luce il 9 aprile.
Per me che ho conosciuto Duras, che ho diviso con lei il dolore della famosa Ete' quatrovinght, e' strano leggere ogni volta un'analisi della sua scrittura come frutto di uno sforzo, di un atto capitale, mentre in lei cio' che colpiva e coincolgeva era la naturalezza del racconto, il fluire sorgivo di un'acqua limpida i cui rivoli affioravano all'improvviso e poi si inabissavano, senza progettualita' se non quella di lasciar fluire, di lasciar affiorare senza freni e senza censure...
RispondiEliminaSì, hai ragione Aurora. Nel libro parlo proprio di questo aspetto della sua scrittura usando un'espressione cara a Duras. Non posso dire di più al riguardo perché attendo l'uscita del libro. In questo articolo, ho voluto dare spazio ad altre analisi (che condivido anche se risulta sempre riduttivo parlarne in una pagina o poco più). Ti ringrazio per il tuo commento, puntuale e preciso. Se vuoi ne possiamo anche parlare via mail (trovi tutti i riferimenti anche in home oppure nella pagina contatti).
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