L'articolo è uscito sulla rivista Le Città delle Donne
Audace, introspettiva, brillante, travolgente, perennemente irrequieta, come lei stessa si definisce in una lunga intervista «anche quando possiedo tutto –amore, devozione, Henry, Antonin, Allendy– sento ancora me stessa posseduta dal grande demone dell'irrequietezza che mi guida ancora e ancora (...) tutto il giorno mi sento protesa, spinta in avanti. Riempio pagine e pagine con la mia febbre, con questa sovrabbondanza di estasi, ed ancora non è abbastanza. Ho Henry e ho ancora fame, ancora vado cercando, ancora in movimento –non riesco a smettere di muovermi. Solo Henry percepisce il mostro, perché anche lui ne è posseduto». E tale mostro trafiggerà la sua scrittura.
Nelle vene di Anaïs Nin scorre il
sangue danese e francese, spagnolo e cubano dei genitori. Dopo un'infanzia a
Neuilly-sur-Seine, sobborgo di Parigi (dove Clifford Barney avrebbe organizzato
il Salon che nominava l'Académie des Femmes, luogo di passaggio di nomi
illustri quali Colette, Marguerite Yourcenar, Djuna Barnes, Mata Hari...), il
padre, Joaquin Nin, compositore e pianista, abbandona la famiglia perché
infatuato di una sua studentessa di pianoforte. Messa alle strette
economicamente, la madre decide di trasferirsi con i figli a New York dove
avrebbe avuto più possibilità di mantenerli. Nonostante Joaquin Nin fosse un
padre e un marito discutibili, il suo allontanamento da casa gettò Anaïs in un
profondo turbamento.
Una lunga lettera al padre sarà
l'inizio del suo diario: oltre trentacinquemila pagine (con una storia editoriale
tormentata) che, oggi, rappresentano l'opera magistrale di Nin nella quale
l'arte della scrittura si intreccia al racconto erotico con una sapienza e una
maestria senza eguali. È tra le pagine di questo diario, iniziato poco più che
fanciulla, che avviene la metamorfosi di Nin: da immigrata americana che non ha
altro interlocutore che un mucchio di pagine bianche alle quali affidare i suoi
più reconditi segreti, le sue paure e le sue aspirazioni, a giovane donna mossa
da una fervida filosofia letteraria e da uno stile narrativo inedito.
Ha sempre
saputo che avrebbe scritto, «lascerò una cicatrice sul mondo». Inseguiva,
irrequieta e affamata, sola nella sua incessante ricerca, la risposta alla
domanda sul significato di essere donna e di essere donna scrittrice. Erano i
primi decenni del Novecento, le lotte femministe dell'ultimo Ottocento e si
stavano ripercuotendo sulle coscienze delle donne di quel periodo pur con una
consapevolezza maggiore e una risposta ancora più grintosa verso
"l'oppressore e il patriarca bianco".
Parigi accoglierà Anaïs Nin nella sua luminosa magnificenza. La Belle Époque stava cedendo il posto ai nazionalismi ma la lost generation di Hemingway, espressione rubata a Gertrude Stein, bivaccante nei café parigini e nei teatri della capitale francese si fa abbracciare dalla sinfonia gracchiante dei grammofoni, la quale confonde gli animi ancora inconsapevoli che una seconda grande guerra avrebbe scosso l'intera Europa, e non solo, di lì a qualche anno.
Legata da una
decina di anni a Hugh Guiler, il "banchiere della East Coast", nonché
cineasta, surrealista e uomo pervaso dall'amore per la fotografia, morto nel
1985 nel suo appartamento di New York, Anaïs Nin trova a Parigi il terreno
fertile per la sua fame letteraria.
È qui che conoscerà e avrà relazioni intime, nel tempo, con Antonin Artaud, «il volto delle mie allucinazioni. Gli occhi allucinati. La nitidezza, caratteristiche scolpite dal dolore. Il sognatore, innocente e diabolico, fragile, nervoso», con Henry Miller, amico e amante, modello letterario, confidente («sono stanca Henry, stanca da morire di aver bisogno di cose, di volere cose»), con René Allendy e Otto Rank, entrambi psicanalisti. Nessun uomo, nessuna relazione potrà mai competere con la storia, con l'Uomo, le Re Soleil, come spesso amava definirlo: il padre Joaquin. L'incontro, il primo vero incontro, dopo un'assenza di vent'anni, risale al giugno del 1933. Ma questo Anaïs Nin ancora non lo sa e non può immaginarlo.
Gli anni precedenti
sono quelli della sua prima prova letteraria, D.H. Lawrence. Uno studio non
accademico e dei racconti, recentemente pubblicati da La Tartaruga edizioni,
in Spreco di eternità nella traduzione di Stefania Forlani e Valeria
Gorla e con la prefazione di Gunther Stuhlmann e introduzione di Allison Pease.
Entriamo nel
vorticoso e labirintico inconscio dell'autrice. Racconto dopo racconto, si
dipana la sua ricerca, urgente e incessante, di conoscere e capire l'identità
femminile, il profondo significato di essere donna e di essere donna
scrittrice. Tra queste pagine ritroviamo ciò che rappresenterà la materia
letteraria di Nin negli anni successivi: la divisione tra io privato e io
pubblico, la frammentazione della voce narrativa, la sperimentazione e
l'artificio linguistico, la scrittura evocativa, la narrazione del desiderio e
del godimento. L'oscillazione tra finzione e realtà, la tendenza a trasformare
la fantasia in verità, giocando ora con l'una ora con l'altra, mettendo al
centro della scena se stessa o una delle tante donne che è stata e che sarà.
Attingere alla molteplicità della propria persona: «le donne vedono se stesse
come in uno specchio negli uomini che le amano. In ogni uomo io ho visto una
donna diversa e una vita diversa».
Anaïs Nin
utilizza a suo piacimento la creatività e l'immaginazione costruendo una
pluralità identitaria che poggia sulla conoscenza della psicanalisi derivante
dalle sue frequentazioni soprattutto con Otto Rank. La scenografia che fa da
sfondo si regge sulla fantasia e sull'amore per l'arte come essenze
dell'esistenza e della verità.
Nella giovane
Nin, autrice di questi racconti, non è difficile intravedere la donna che
diventerà qualche anno dopo, colei che rintraccia nei libri «l'incredibile
esistenza di mondi più vasti e ancor più fantastici». È alla ricerca di sé e di
ciò che la circonda, di quell'essenza che va comprendendo fin da quando è
bambina.
In Spreco di
eternità il filo sottile della narrazione intreccia la parola all'immagine
e al suono. Le storie ora si infittiscono ora si dilatano, talvolta prendono
direzioni inaspettate, si allontanano dal punto di partenza per poi
ricongiungersi con il pensiero iniziale dell'autrice.
Lolita e
Mariette, Chantal, Aline, Anite… sono solo alcune delle donne raccontate da
Anaïs Nin, riflesso della stessa autrice che vuole scrivere di cose «impenetrabili,
ignote, usualmente indescrivibili» e vuole dare forza a «valori spirituali che
di solito sono menzionati in maniera vaga e generica, una luce che la maggior
parte delle persone segue ma non riesce a comprendere davvero».
E noi siamo
qui, Anaïs, pronti ad accogliere e comprendere le tue storie mentre racconti del
«mondo con sguardo nitido e parole trasparenti».
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