In Una diga
sul Pacifico Marguerite Duras racconta la storia della madre, una figura
complessa, ambigua, temuta e desiderata, strana e straniera al tempo stesso
come la definisce Wafa Ghorbel. Saranno le parole di Duras a far rivivere la
madre, a dare voce all'ingiustizia subita, ai torti masticati a fatica, alla
rabbia. E non è stato abbastanza Una diga sul Pacifico, sono serviti
altri libri mentre l'immagine materna attraversava le pagine, un infinito
riflettersi che passava dal ricordo allo scritto, dalla memoria alla parola.
«Può darsi che
il linguaggio sia stato inventato proprio per questo scopo: per denunciare
un'ingiustizia, per gridare a favore di qualcun altro». A parlare è Nathalie Léger
a proposito della scrittura di Duras e del racconto materno arrivato a noi con Un
Barrage contre le Pacifique.
Attraverso le parole di Léger, mi accorgo che nelle trame della vita altrui si cerca sempre qualcosa che possa, in un qualche modo, spiegare la nostra vita, qualcosa nel quale potersi riconoscere e riflettere. Cosa prova una donna quando si riconosce nella storia di un'altra donna?
Una donna è in
silenzio, non può parlare, non ha potuto parlare, non le hanno dato il tempo.
Qualcuno l'ha giudicata pazza, qualcun altro ha infangato il suo nome, altri
hanno raccontato storie su di lei inventando particolari e aneddoti. Ma chi è
questa donna in silenzio? Chi è davvero? Chi si può arrogare, oggi, il diritto
di parlare per lei?
Ho solo queste
domande mentre mi addentro nei libri di Nathalie Léger: Suite per Barbara
Loden e L'abito bianco (entrambi pubblicati in Italia da La Nuova
Frontiera).
Una donna
interpreta un ruolo che ha scritto lei stessa, in un film da lei diretto, un
film che si basa sulla vita di un'altra donna che non ha conosciuto ma nella
quale si riconosce. Il film è Wanda, la regista è Barbara Loden. Uscirà
nel 1970. In concorso alla trentunesima Mostra internazionale d'arte
cinematografica di Venezia, ottiene il Premio Pasinetti come miglior film
straniero. In seguito alla proiezione, Marguerite Duras dirà che in questa
pellicola accade un miracolo: «normalmente c'è una distanza tra
rappresentazione e testo, soggetto e azione. Qui quella distanza è annullata». Quasi
trent'anni dopo, Nathalie Léger racconta di Wanda attraverso gli occhi di
Barbara Loden: Suite per Barbara Loden. Leggendolo, può accadere di
percepire il contrario. Lo sguardo di Wanda delinea l'identità di Loden.
«Devi essere
ascoltata qualunque cosa fai», suggerirà Elia Kazan a Barbara Loden. «Wanda
l'ho fatto per questo. È un modo per confermare che esisto».
Dopo la morte
di Loden, durante un'intervista nella hall di un albergo nel centro di Parigi,
Duras dirà a Kazan: «Wanda è un film su qualcuno… e quando dico
qualcuno, parlo di qualcuno che abbiamo isolato, che abbiamo visto nella sua
essenza, scardinato dal contesto sociale in cui lo abbiamo trovato. Credo che
resti sempre qualcosa dentro, dentro di sé, che la società non ha intaccato,
qualcosa di inviolabile, di impenetrabile, di decisivo… c'è una coincidenza
immediata e definitiva tra Barbara Loden e Wanda».
Nello sguardo
di Wanda, Léger si accorge di vedere gli occhi di sua madre, quel particolare
modo di «scrutare il viso impassibile dell'uomo per capire e anticipare». È tra
le pieghe di quella fissità inquieta che Léger intravede il volto materno, la
sua esitazione, l'assurdità dei gesti, la fuga straziante, lo scoramento, lo
sconforto, la stanchezza. E poi la sua storia. Léger si chiede perché sia
così attratta da Wanda, con la quale ha poco in comune. A differenza di
Wanda, lei non è mai stata una senzatetto, non è mai stata portata in tribunale
e accusata di trascurare la sua famiglia, non ha mai perso l'affidamento dei
suoi figli, non è mai dipesa da un uomo per soldi. «Eppure mi è successo, una
volta, l'unica, e sufficiente, di non sapere dire di no, di non osarlo dire, di
cedere alla minaccia di morte».
La donna in
silenzio è Wanda (che nella realtà si chiama Alma Malone) seduta in tribunale,
è Barbara Loden mentre parla di sé come di un'ombra senza valore, senza
dignità. La donna in silenzio è la madre di Léger che scappa da un dolore
incredibile, da un vuoto dell'anima, scappa dall'abbandono e dall'umiliazione. La donna in silenzio è la stessa autrice in
ascolto del dolore materno e delle donne nelle quali riconosce quel dolore, quella
stessa perdizione.
Nathalie Léger
rompe il silenzio. Racconta. Un racconto che dipende «forse da questo grande
arazzo in sala da pranzo e che incombe sui nostri pasti» si legge ne L'abito
bianco. Di nuovo, una donna parla di un'altra donna che non ha conosciuto
ma nella quale si riconosce. Tra le pagine di questo libro leggiamo la
storia di Pippa Bacca, l'artista milanese brutalmente uccisa nel 2008 in un
boschetto tra Izmit e Gebze durante un viaggio dall'Italia a Gerusalemme intrapreso
vestendo un abito da sposa, un viaggio in autostop dal valore simbolico. Alla
domanda perché in autostop, Pippa Bacca risponde che è un modo di «fidarsi del
prossimo. Per dimostrare che, quando ci si fida, non si può che ricevere del
bene». Voleva accogliere, Pippa Bacca. Voleva portare un messaggio di fiducia e
pace, aprire le braccia all'altro, «sposare il mondo intero… un atto di
suprema follia, che è quella dei santi» come ha detto Alda Merini che a Pippa
Bacca ha dedicato una poesia: «Ti sei vestita di bianco / ma siccome la tua
anima mi sente / ti vorrei dire che la morte / non ha la faccia della violenza
/ ma che è come un sospiro di madre / che viene a prenderti dalla culla / con mano
leggera». È la madre di Pippa Bacca che Nathalie Léger vuole intervistare per
dare corpo e linfa al soggetto del suo libro. Quell'intervista non avverrà. Léger
prenderà un treno per Nizza il giorno stesso del suo arrivo a Milano, poche ore
dopo aver varcato l'uscita della stazione centrale.
In questa
storia c'è un'altra donna ed è la madre di Léger. Un'apparizione in Suite
per Barbara Loden, il secondo soggetto ne L'abito bianco. È lei che
incalza la figlia, domanda, chiede, suggerisce modifiche al libro che sta
scrivendo. Propone un'altra storia: la sua. La vita della madre è anche quella
della figlia e dal momento che «non hai esperienza del tuo soggetto» meglio
scrivere di qualcosa che conosce, qualcosa di cui ha fatto esperienza. Ma Léger
non vuole salvare i ricordi della madre dall'oblio. Vuole lasciarsi alle spalle
il passato, illudendosi di trovare una certa idea di verità («ma come è fatta?
Sta tra l'apparire e lo scomparire» diceva Godard riportato in epigrafe) in ciò
che non ha vissuto, che può essere inventato, rielaborato, romanzato utilizzando
ciò che gli altri hanno vissuto.
È nella fuga
dal suo passato che Léger fa i conti con grumi di parole rimaste sul fondo dei
ricordi della madre. Lì si annidano l'umiliazione subita, il rimpianto dei non
detti, la tragedia del silenzio. La madre diventa la storia. Pochi oggetti per
descriverla. L'abito da sposa immacolato, mostrato alla figlia in cucina, e il
faldone, quello che contiene la verità. Alla figlia il compito di trasformarlo
in un memoriale di parole per poi tornare al suo soggetto iniziale, Pippa
Bacca.
Manca la
traduzione italiana di Exposition per completare il trittico di Nathalie
Léger. Tre opere che si completano a vicenda e che uniscono la biografia all'autobiografia,
l'arte al cinema, la narrativa alla saggistica.
Si ritorna sempre alla stessa sofferenza, a quell'impasto atavico che alita sulla nostra vita riscaldando i giorni. Come Duras, anche a Léger non è bastato un libro. Aveva bisogno di più spazio e più parole per raccontare la storia di sua madre e delle donne nelle quali ha ritrovato i suoi occhi e le sue esitazioni, la sua impotenza e la sua lacerazione. Con determinazione Léger ha guardato in faccia le sue ossessioni e con coraggio le ha chiamate con il loro nome.
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