Il 28 gennaio ricorre il compleanno di Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 - Parigi, 3 agosto 1954). Ho provato a delineare un quadro di una delle Donne che ho amato per la forza della parola, il cui ricordo è vivo dentro di me.
Nel voler tracciare un ritratto di Colette, prevale lo sguardo sulla parola tuttora inedita e moderna, la parola tumultuosa che passa dai frammenti del corpo per diventare lingua a servizio di quelli che «alla leggera chiamiamo i piaceri fisici e l'infinito del mondo». Affacciandomi ai prodigi del linguaggio, sterminato per l'acume nel trattare di questi piaceri e di questa infinitudine, mi travolge il fulgore della parola scritta di Colette, la sua vocazione a trasporre il piacere femminile, a liberare la sessualità della donna costruendo un'architettura narrativa basata sul dialogo, continuo, tra ciò che è puro e ciò che è impuro.
Uno dei tanti aspetti che mi
affascinano di Colette, è proprio questo suo naufragare nella parola, immersione
ed emersione, bagliori sottratti all'erotismo immaginifico e restituiti sotto
forma di parola che diventa lingua e a sua volta linguaggio. La costruzione di
un alfabeto, quello che Sido ha cercato di trasmetterle, «lo schizzo di un
luogo intravisto all'alba sotto raggi che non avrebbero mai raggiunto lo zenit».
Trattasi di evocazione della scrittura che diventerà poi metamorfosi del linguaggio
colto nel flusso interiore della narrazione delle epoche della sua vita, questo
rimestare nel passato per poi dipingere sfumature del presente, in un corpo a
corpo con il tempo che si riversa e si imprime sulla carta.
Colette trae una forza inaudita
dalla sua penna. Dai diversi punti di osservazione, luoghi privilegiati
dai quali osservare la vita nel suo scorrere e incedere, Colette afferra quella
che potrebbe essere definita come l'essenza della sua scrittura. «Scrivere!
saper scrivere! Lo scarabocchio inconscio, i giochi della penna che gira in
tondo intorno ad una macchia d'inchiostro, che mordicchia la parola imperfetta,
la artiglia, la setola di dardi, la adorna di antenne, di gambe, fino a perdere
la sua figura leggibile di parola, trasformata in un insetto fantastico».
Questo saper scrivere
verrà lodato da Simone de Beauvoir che racconta del suo incontro con Colette in
una lettera del 1948 indirizzata a Nelson Algren affermando, con la sicurezza
che, da sempre, la contraddistingue: «Colette è in Francia il solo grande
scrittore donna, parlo di un grande scrittore vero». E pensare che una ventina
d'anni prima, quando il critico letterario André Billy le fece notare le sue
doti in occasione dell'uscita de La Femme cachée, Colette rispose: «Il più
grande scrittore di prosa francese vivente, io? Anche se fosse vero, non lo
sento dentro di me».
Questa donna si mostra in tutta
la sua infinita bellezza, ricreando la vita e la sua vita, dando forma,
corpo e nome all'indicibile, misurando il momento e concedendosi il
lusso di prendere distacco dal tempo. La parola, sontuosa, ritmica, catturata
nella sua fugacità, la parola densa, imbevuta del quotidiano, sarà proprio quella
parola a determinare la forza della sua produzione letteraria.
Diceva Catulle Mendès: «solo col
tempo lei potrà valutare la forza del tipo letterario che ha creato. Tra… che
ne so… venti o trent'anni, lo sapranno tutti. Allora vedrete che cosa significa,
in letteratura, aver creato un tipo».
Parole profetiche, quelle di Mendès.
In fondo, «non si sceglie né il tempo né il mondo», come scriverà Louis Aragon,
pochi giorni dopo la morte di Colette.
Parte del mio studio sull'opera letteraria di Colette è contenuta nel mio libro, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore
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