«Mi succede spesso di sognare vecchi vestiti, di andare e venire in quelle storie un po’ incoerenti con abiti che credevo dimenticati. Li sento parte di me come la mia pelle, i miei capelli, le mie unghie. Poi finiscono nell’oblio e nella spazzatura, smessi o rovinati, così come si gettano via le unghie tagliate o il gomitolo di capelli strappati dalla spazzola. Apro questo guardaroba su un tempo gettato alla rinfusa, ieri o oggi. Stranamente non c’è un futuro, non penso al prossimo vestito, a quello che deve arrivare, che verrà a cercarmi. Nessun bisogno, né desiderio. (...) Aprire un libro come si apre un armadio. Meglio: aprire un armadio come si apre un libro. Scrivere un vestito perduto, dimenticato, farlo uscire da quel guardaroba così oscuro, guardare ciò che è stato nel suo ordinario e nel suo straordinario».
Mai avrei pensato di imbattermi
in un'apologia del vestiario, un cantico delle creature abbracciate ai loro
abiti. Perché Guardaroba è proprio questo: una leggiadra esposizione
aneddotica sul significato dell'indumento in relazione al corpo femminile che
lo indossa, il ricordo nostalgico del tempo perduto (o di quello ritrovato?)
declinato nel gesto di sottrarre da un baule o da un vecchio armadio un tessuto
carico di storie e tradizioni. Eppure, avrei dovuto probabilmente aspettarmelo
perché l'autrice, Jane Sautière, ha già dato prova della sua penna, del suo
modo di invertire la prospettiva dando alla narrazione una traiettoria differente
dal solito e liberando gli oggetti narrati dalla loro, spesso uniformante,
indistinzione.
«La nudità non è la verità. Ne è
insieme l’inquietudine, l’attesa, la cura e l’appello. Forse anche lo
svestimento: tolta la veste, occorre comprendere che tutto resta da scoprire».
Lo scriveva Jean Luc Nancy oltre trent'anni fa. E ancora prima di lui, Oscar
Wilde cercava di ricondurre quel tutto a un concetto di libertà fuori
dal tempo e dallo spazio, in perenne tensione con l'essenza stessa
dell'esistenza.
Habitus, habēre. Ricorda
Sautière. Indossare qualcosa sul proprio un corpo, vestirlo per proteggerlo,
per attribuirgli un significato, per imbrigliarlo servendosi degli stereotipi
femminili e maschili oppure sperimentando nuovi modi di vestire.
Assisto all'apertura di «questo
guardaroba su un tempo gettato alla rinfusa, ieri o oggi». E così l'autrice mi
accompagna tra i negozietti di Barbès: tra questi un loculo minuscolo gestito
da un'africana che vende tipiche tuniche bou bou. Per le strade di Lione,
Sautière scopre una boutique dove le due ragazze sono anche sarte imprenditrici
e distributrici di capi da loro disegnati. Pezzi unici. Seguo Sautière, nei
suoi ricordi di gioventù a Phnom Penn dove, durante un bagno in acqua, il sampot
si incolla alla pelle. È adolescente e si vergognerà di aver mostrato, lungo la
strada per casa, le sue curve ai pescatori di passaggio. In Cambogia si faceva
fare le scarpe da un calzolaio ma poi l'afa strozzava le sue passeggiate
obbligandola a camminare scalza, il piede nudo a contatto con la terra arsa
dalla calura. Tornata a Parigi avrebbe faticato a indossare le scarpe. E non
solo quelle. Non riusciva a coprire il corpo con cappotti adeguati, sciarpe o
cappelli. C'è voluto del tempo prima che gli abiti l'aiutassero a «tornare al
mondo». Ed ecco che scopre e vive Parigi.
Maglioni di lana pesante,
cardigan infeltriti, golfini e dolcevita, un abito di pelle color marron glacé,
un vestito in crêpe de chine rosso, aderente a maniche lunghe. E poi ancora una
blusa in crêpe de soie color écru, una gonna-pantalone, dei fuseaux aderenti,
una gonna di mussola, una tunica di lamé. Ogni capo racconta qualcosa del suo
passato, della donna che lo ha indossato e che ora non c'è più o che non può
più portare quell'abito.
Jane Sautière traccia la storia
delle sue epoche attraverso le mode che ha vissuto: da Teheran, città dove è
nata, rimembrando la madre e le donne che la circondavano e con loro il profumo
di acqua di rose, i capelli cotonati, le sopracciglia rasate e ridisegnate, la tunica
indiana, le spalline imbottite e l'abito da principessa, si passa alla
Cambogia, il fiume Mekong, la terra brulla, la nudità dei corpi, i tessuti
leggeri, per giungere a Parigi, cosmopolita metropoli nella quale si è abituata
nuovamente a indossare abiti, a sceglierli, a vestire il corpo.
Indossare un vestito, diventare
soggetti liberi di dare al proprio corpo una forma e quindi un significato o,
come affermava Foucault, di ricercare un'etica dell'esistenza che sia alla base
stessa di quella libertà ambita.
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