«E allora perché tornavi ogni
estate? Ti piace soffrire? Perché non rimanevi a casa tua?». L'incipit è un
pugno allo stomaco. Arriva all'improvviso, con tutta la violenza possibile. In
quelle parole serpeggia la menzogna, l'omertà, la banalizzazione della violenza
legittimata nell'atto di colpevolizzare una ragazzina di appena quindici anni. Belén
López Peiró con il suo libro Perché tornavi ogni estate (La Nuova
frontiera, nella traduzione di Amaranta Sbardella) ci porta nella stagione crudele
della sua infanzia, a Santa Lucía non lontano da Buenos Aires. È nella casa dei
suoi zii che si consuma l'orrore.
Di giorni lui le prepara la colazione,
la porta con sé sfoggiandola come un oggetto prezioso davanti ai suoi colleghi.
La coccola e si prende cura di lei come farebbe uno zio. Di notte abusa
del suo corpo, lo soffoca, lo spezza. E ogni volta che le sue dita frugano
dentro di lei, lui si porta via qualcosa di quella ragazzina un tempo
spensierata.
Belén si sente merce di scambio,
un pacco che la madre lascia a «dicembre, alla fine della scuola» per «riprendere
a marzo, ormai posseduta. Una verginella all'arrivo, uno scarto all'uscita».
Tra la depressione della madre e l'assenza del padre, lei diventa un punto
sempre più piccolo. Vorrebbe svanire, scomparire per sottrarsi alle mani dello zio,
allo sguardo dei parenti, della zia, della cugina Florencia.
La vergogna si
insinua nei vestiti, nei gesti quotidiani, nella sua figura riflessa allo
specchio: «quelle gambe un tempo toccate non ti appartengono più, gambe da
ragazzina, da ragazzina provocante, da ragazzina provocante e complessata».
E allora perché tornare ogni estate? Perché non mettere fine a quel dolore, a quell'annientamento? Perché non mettere fine a quella caduta, quello sprofondare sempre più giù, fino a diventare un brandello di carne senza identità?
Belén López
Peiró racconta in prima persona la sua storia. Al suo grido di dolore si
uniscono le voci degli altri componenti della famiglia e di coloro che
ruotavano attorno ad essa: i genitori, il fratello, la zia, i cugini, la
pediatra, lo psicologo, il fidanzato.
Le persone che
avrebbero dovuto amarla e proteggerla hanno preferito fingere di non vedere
quel che stava accadendo proprio tra le mura domestiche. Come la zia, che una
notte si alza, forse per andare in bagno, forse per bere un bicchiere d'acqua.
Passa accanto alla stanza, la porta è spalancata. Suo marito è nel letto della
nipote. Il suo sguardo cambia direzione, gli occhi si posano altrove. «Fare
finta di niente significa difenderlo, essere accondiscendente con un animale
che ha preso a botte sua moglie e si è scopato sua nipote. Significa essere accondiscendente
con un tipo che ha preteso un pagamento in natura per ogni sua gentilezza.
Significa accettare e incoraggiare la brutalità di un uomo che crede di poter
prendere in prestito l’infanzia di una donna e distruggerla».
Cosa resta dopo la vergogna, dopo
l'abuso, dopo il vuoto che diventa sempre più grande, che paralizza, quel vuoto
che, a pensarci, diventa parte del corpo abusato? Che cosa resta? Il silenzio. «Tacere
è sempre stato il castigo peggiore». Eppure, quando il muro del silenzio si rompe,
esplode la polifonia vocale che ha contribuito alla violenza. L'abuso non è
nato da una persona sola, l'abuso è stato perpetrato anche da coloro che hanno
preferito voltarsi dall'altra parte: dalla zia, dai genitori assenti, dalla
pediatra che non si è accorta delle lacerazioni, dalla giustizia che spesso alimenta
la pratica dissacratoria verso coloro che subiscono violenza attraverso lo slut-shaming
e l'oggettivazione sessuale.
Perché tornavi ogni estate
è uscito nel 2018 in Argentina, ora in corso di traduzione nelle maggiori
lingue europee. Tre anni dopo, Belén López Peiró racconta il seguito nel libro Donde
no hago pie, sul processo giudiziario e sulla rivittimizzazione che
esso ha comportato.
La voce di López Peiró diventa
un'audace quanto necessaria accusa contro il sistema politico e sociale di gran
parte dell'America Latina dove c'è ancora molta strada da fare circa il
rispetto della donna e il diritto alle pluralità nonostante i recenti traguardi
raggiunti (come la legalizzazione dell'aborto).
La storia di Belén López Peiró ha
iniziato a venire a galla durante un workshop letterario. «Mi tremano le mani.
Prendo fiato. Leggo tutte le voci della storia e quando finisco sento come il
mio corpo ormai leggero accasciarsi sulla poltrona» e questo a riprova, come
scrive lei stessa, che «parlare rende liberi, anche se le catene non se ne
vanno».
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