Agli inizi degli anni duemila, Filippo
La Porta si domandava se fosse «ancora possibile fare esperienza diretta
delle cose in un mondo di simulazioni e simulacri». Parole profetiche che se
all'epoca sembravano strizzare l'occhio a Baudrillard, oggi risuonano quanto
mai attuali.
In questo gioco di rievocazioni storiche
e letterarie, più o meno consapevoli delle regole alle quali ci sottoponiamo,
ci si chiede a che punto della storia siamo arrivati, se davvero, come
preannunciava Pasolini, ci stiamo affacciando alla sua fine, causata
dall'industria e dal mondo della tecnologia, oppure se siamo alle soglie di una
nuova era. Secondo il parere di chi scrive, ognuno ha il suo pezzo di storia e
quella sta mutando. Fermarsi a osservare e raccontare la vita può essere la
risposta alla domanda di La Porta, il punto di innesco per salvarsi dal
tritacarne mediatico dell'era virtuale e cogliere l'essenza di quella che Hanna
Serkowska definisce letteratura dell'esperienza.
Per fare esperienza diretta
delle cose della vita è necessario calarcisi dentro. Raccontare diventa la
missione per l'esplorazione umana, per conoscere e capire il reale assetto
della società, per affondare la lama della scrittura nell'indagine etnografica del
quotidiano alla maniera di Pierre Bourdieu che ha raccolto le sue osservazioni
e quelle dei suoi colleghi nel poderoso volume La miseria del mondo
pubblicato in Francia da Editions Seuil agli inizi degli anni Novanta. Le oltre
mille pagine di Bourdieu attraversano gli anni delle disuguaglianze sociali mai
pienamente sanate dal secondo mandato di François Mitterand. Il racconto
procede per interviste, dialoghi durante i quali si annulla la distanza tra chi
fa le domande e chi racconta la propria vita. Lavoratori, immigrati, contadini,
agenti di polizia, infermieri, studenti, persone ai margini strangolati dalla società
del benessere che invece di appianare le differenze non fa che acuirle, accelerando
quel sistema di precarietà sul quale, oggi, si fondano le società di molti
Paesi europei e generando una nascente classe sociale, quella dei nuovi poveri.
Negli stessi anni della pubblicazione di Bourdieu, viene portato al cinema uno
spaccato delle banlieue parigine grazie alla sceneggiatura di Mathieu
Kassovitz con il film La Haine con un giovane quanto promettente Vincent
Cassel simbolo del disagio e delle violenze nei sobborghi metropolitani. Qualche
anno più tardi, in Italia, esce per Laterza Globalizzazione e disuguaglianze
del sociologo Luciano Gallino, un libro che ha messo in luce la crisi innescata
dalla finanziarizzazione dell'economia capitalista e di quanto le sue estreme
conseguenze si riflettano su un'ampia fetta di popolazione senza voce e senza
diritti (Salvatore Veca, Iride, 2016).
Questi
racconti, letterari e cinematografici, sono viaggi nella genealogia sociologica
di un'Europa attraversata dal neoliberismo che danno voce a interi Paesi che,
parafrasando Pierre Rosanvallon, non si sentono ascoltati e rappresentati.
Seguendo l'onda lunga del pensiero filosofico e sociologico di Bourdieu e a partire da Les Parlement des invisibles di Rosanvallon, una decina di anni fa viene creata la collana Raconter la vie per Editions Seuil: oltre quindici titoli che hanno creato un ponte in grado di congiungere gli invisibili con la scena politica e sociale contemporanea. La collana, diretta proprio da Pierre Rosanvallon con la codirezione di Pauline Peretz, attinge a diverse fonti sociologiche e letterarie tra cui, oltre al già citato Bourdieu, Robert Ezra Park, Michel Foucault, il volume Let us now praise famous men di Walker Evans e James Agee, e poi Honoré de Balzac, Charles Dickens, William Faulkner, Virginia Woolf, George Orwell.
Libri brevi e dall'immediato
impatto grafico capaci di suggerire l'idea di una rinnovata circolazione delle opinioni
cercando di sfidare le difficoltà del panorama editoriale (difficoltà che sono
lievitate con la pandemia).
Tra questi
libri anche Regarde les lumières, mon amour di Annie Ernaux, da alcune
settimane nelle librerie italiane grazie alla traduzione della casa editrice
L'Orma. Guarda le luci, amore mio di Ernaux si inscrive a pieno
titolo negli intenti di Rosanvallon e Peretz: comprendere la realtà attraverso
la vita delle persone, farsi strada nel loro quotidiano, raccontare la loro
storia per renderli visibili, inserire le singolarità in una pluralità di voci.
Dare voce significa anche riflettere e confrontarsi con una storia diversa
dalla propria, mettersi in ascolto, combattere pregiudizi e stereotipi.
Da novembre 2012 a dicembre 2013,
Annie Ernaux annoterà sul proprio diario le sue visite all'Auchan nel centro
commerciale Les Trois Fontaines di Cergy: «una libera rassegna di osservazioni,
di sensazioni, per tentare di cogliere qualcosa della vita che vi si svolge».
Nel cuore di Cergy-Préfecture,
quartiere pulsante della vita cittadina dove si concentrano i maggiori servizi,
sorge quello che è considerato il più grande centro commerciale della
Val-d'Oise. Ci siamo addentrati più volte a Cergy, lungo i boulevard della
città, attraverso la scrittura fotografica di Annie Ernaux. Questa volta al
centro della narrazione vi è l'esposizione del corpo al supermercato, luogo in
cui si fa esperienza della «dimenticanza di se stessi nella contemplazione» e,
al contempo, in cui si è imprigionati nello sguardo altrui quando si è più
vulnerabili.
La merce comprata e posizionata
sul nastro scorrevole della cassa mette a nudo le nostre abitudini, «gli
interessi più intimi. Persino la composizione della nostra famiglia (…) Il
tempo trascorso in fila alla cassa, quello in cui siamo più vicini gli uni agli
altri. Osservatori e osservati, ascoltanti, ascoltati (…). Mentre ci si espone,
con il corpo, i gesti, la vivacità o la goffaggine — rivelare di essere
stranieri nel chiedere una mano alla cassiera per contare le monete. Le proprie
attenzioni nei confronti degli altri — mettere il divisorio dietro la spesa
come forma di gentilezza per il cliente successivo, infilare il cestello vuoto
nella pila ai piedi del nastro. Ma in fondo, proprio in virtù del fatto che non
ci si conosce, infischiandosene di questo essere improvvisamente esposti».
Le sue frequentazioni all'Auchan
diventano sempre più fitte, più volte a settimana e in diversi orari della
giornata per meglio cogliere la stratificazione sociale. Ed è così che i vari
piani del centro commerciale diventano un unico palcoscenico della varia
umanità che lo vive abitualmente. Il settore discount accoglie i cosiddetti «mangia
a poco (un'espressione di Thomas Bernhard)», persone che comprano senza
badare alla provenienza o alla qualità del prodotto, presentato miseramente e
altrettanto miseramente ammassato su bancali di legno con noncuranza. L'unica
preoccupazione in questo settore è comprare grandi quantità a basso costo.
Anche la narrazione delle etichette, la geometria delle corsie, la disposizione
della merce, tutto trasuda sciatteria e approssimazione. Banditi il buon gusto,
l'eleganza e la persuasione del marketing, ogni cartello impone divieti e mette
in guardia: «l'avvertimento è riservato alla popolazione considerata più
pericolosa, dal momento che non compare sopra le bilance del reparto frutta e
verdura nella parte normale del supermercato».
Il reparto
giocattoli con la sua rigorosa distinzione tra giochi per maschi e giochi per
femmine (ai primi è riservata la possibilità di scegliere tra forza, audacia e
ingegno, mentre per le seconde ogni prodotto è in funzione del ruolo di madre
che dovranno ricoprire) ripropone il problema culturale degli stereotipi di
genere: «Femen è qui che dovete venire, alla fonte, per mettere soqquadro gli
scaffali che modellano il nostro inconscio».
Questi nonluoghi
continuano ad essere prolungamenti dell'universo femminile. Ernaux osserva come
le donne, ad oggi, riescano a muoversi con disinvoltura tra le corsie, sapendo
esattamente cosa prendere in base a ciò che manca a casa mentre gli uomini, se
da soli, arrancano ed esitano davanti alla scelta di uno stesso prodotto
determinato da marche differenti.
Attraversando
le corsie e i reparti, salendo e scendendo le scale mobili, Annie Ernaux si fa
testimone della vita di chi le sta davanti in fila alla cassa, al reparto
libreria del livello uno, oppure di chi sta scegliendo un prodotto e inizia a
parlare a voce alta, intrattenendo lunghi discorsi come se fosse in compagnia
di un interlocutore, della giovane coppia che tentenna davanti alla varietà di
formaggi calibrando le proprie indecisioni e facendo i conti con l'inizio di
una convivenza. Essere testimoni di questi frammenti di vita è un privilegio e
una responsabilità. Impone rigore nell'osservazione, metodo nella trascrizione
di quanto si è visto e osservato, confronto con le immagini restituite dalla
memoria, fotografie di altri supermercati. Stesse scene ma appartenenti ad epoche
diverse come al Carrefour all'avenue de Genève di Annecy nel 1968 o qualche
anno dopo, nello stesso posto, quando sentendo un ragazzo che negavano la
paternità davanti al livore della ragazza, Ernaux pensa, per la prima volta, «che
anche in un capannone privo di grazia erano ospitate delle storie, delle vite»
e si chiede come mai i supermercati non compaiono nei romanzi, quanto tempo ci
vuole «affinché una realtà nuova possa assurgere alla dignità letteraria».
Quale che sia
la risposta (che Ernaux tenta di rintracciare sia nel coacervo di attività
demandate alle donne e che, tradizionalmente, sono considerate invisibili sia
nella provenienza di molti scrittori della sua generazione o di quella
precedente che, vivendo nel centro di Parigi, non hanno conosciuto la realtà
dei supermercati poiché non esistevano), in questo andirivieni tra un piano e
l'altro del centro commerciale, seguiamo con lo sguardo Annie Ernaux mentre si
fa carico di un momento della storia, ciò che vede, ciò che scriverà «perché
vedere per scrivere è vedere altrimenti. È distinguere oggetti,
individui, meccanismi e conferire loro valore d'esistenza».
Parte del mio studio sull'opera letteraria di Annie Ernaux è contenuto nel mio ultimo, L'evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux pubblicato da 13lab Editore libro
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