mercoledì 28 settembre 2022

Nobel per la Letteratura 2022: tra i favoriti Michel Houellebecq, Ngũgĩ wa Thiong'o, Salman Rushdie, Annie Ernaux

 

Il 6 ottobre alle ore 13.00 l'Accademia svedese annuncerà il vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2022. I bookmaker hanno iniziato a fare scommesse. Sappiamo che spesso si tratta di previsioni che poco o nulla avranno a che vedere con il reale vincitore: Abdulrazak Gurnah, lo scrittore tanzaniano naturalizzato britannico e vincitore nel 2021 del Premio Nobel per la Letteratura, mai tradotto in Italia fino alla nomination al Nobel, docet.


Molti i nomi interessanti nella lista dei bookmaker per il Premio Nobel per la letteratura 2022, una lista che sembra aggiornarsi da alcune ore a questa parte restando pressoché invariata almeno nelle prime posizioni. E così vediamo in pole position Michel Houellebecq seguito da Ngũgĩ wa Thiong'o, Salman Rushdie, Annie Ernaux, Anne Carson e Garielle Lutz. Chiudono le ultime posizioni della top ten Pierre Michon, Haruki Murakami e Margaret Atwood.



 

Michel Houellebecq      

Ngũgĩ wa Thiong'o         

Ngũgĩ wa Thiong'o         

Salman Rushdie                     

Annie Ernaux    

Anne Carson     

Garielle Lutz     

Pierre Michon  

Haruki Murakami            

Margaret Atwood          

Maryse Condé 

Jon Fosse           

Stephen King    

Jamaica Kincaid

Robert Coover 

Hélène Cixous  

Lyudmila Ulitskaya         

Péter Nádas      

Ryszard Krynicki              

Don De Lillo       

Dubravka Ugrešic           

Javier Marías    

Mia Couto         

Mircea Cartarescu          

Nuruddin Farah

Can Xue               

Karl Ove Knausgård       

Edna O'brien    

Gerald Murnane             

Homero Aridjis

Ivan Vladislavic

Scholastique Mukasonga            

Yan Lianke         

Ko Un  

Charles Simic    

Cormac Mc Carthy         

Hilary Mantel   

Linton Kwesi Johnson   

Marilynne Robinson      

Yu Hua 

Zoe Wicomb     

Martin Amis      

Milan Kundera 

lunedì 26 settembre 2022

La scultrice geniale. Ritratto di Camille Claudel

Questo articolo è apparso sul numero 13 di Mollette, progetto di Davide Bregola e Jacopo Masini.


«Una splendida giovane, nel fulgore trionfale della bellezza e del genio, questa giovane dalla fronte superba, sovrastante due occhi magnifici, di quel blu così raro da trovare se non nei romanzi»: così veniva descritta Camille Claudel dal fratello Paul in una lunga e malinconica lettera indirizzata a Eugène Blot intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. All'epoca, Camille Claudel era rinchiusa nel manicomio di Montdevergues dove sarebbe morta una decina d'anni dopo, in una fredda giornata di ottobre del 1943. Le sue peregrinazioni tra un sanatorio e l'altro iniziarono nel marzo del 1913 quando venne prelevata dalla sua abitazione, al 19 di Quai Bourbon, nel cuore di Parigi. «Del sogno che è stata la mia vita, questo è l'incubo», scriverà dall'abisso di Montdevergues. Ricordi di una vita lontana, immagini dai contorni sfumati che forse le ritornarono alla mente guardando negli occhi Jessie Lipscomb, un volto amico, uno dei pochi che Camille vide negli anni della sua forzata reclusione.



Jessie era l'amica inglese con la quale Camille aveva condiviso per due anni, dal 1882 al 1884, lo studio preso in affitto al 117 di Notre-Dame-des-Champs, nel quartiere Montparnasse. Quel fulgore che aveva contraddistinto la giovane negli anni Ottanta dell'Ottocento, tra le mura del manicomio era scomparso, coperto da una coltre di tristezza che Jessie non poté far altro che memorizzare con rassegnazione chiedendo al marito di scattare una foto a Camille. L'abito scuro, il cappello a coprire interamente quello che un tempo erano i capelli lucenti e lunghi fino alle reni. La fierezza, il coraggio, la superiorità di chi «ha ricevuto molto e lo sa», tutto in lei si era dissolto. Camille Claudel, come l’aveva conosciuta Jessie, non c'era più. Così come non c'era più il quartiere Montparnasse come lo ricordavano le due donne, il luogo incantato dove la favola ebbe inizio e dove tragicamente finì.

Irrequieta, testarda e ambiziosa, Camille Claudel apparteneva alla borghesia e la madre, arcigna e anaffettiva ereditiera della provincia dello Champagne, aveva capito fin da subito che proprio quella figlia non avrebbe fatto parte della classe sociale di francesi dedite al matrimonio e alla famiglia. Tra loro non scorreva buon sangue. Paul, il fratello di Camille, descrisse questo rapporto come tumultuoso e burrascoso, puntellato da continui scontri ma sul terreno dell'educazione e dell'istruzione la signora Claudel conveniva con la figlia nell’ambire alle migliori scuole. Da qui la necessità di lasciare Villeneuve-sur-Fère, il paese tra le dolci colline dello Champagne che diede i natali a Paul, prima per Nogent-sur-Seine, dove Camille prese lezioni private dallo scultore Alfred Boucher, poi per la vivace e acculturata Parigi. Fu proprio Camille a convincere i genitori a scegliere il quartiere Montparnasse, meta di molti artisti dell’epoca, per sfuggire alle ristrettezze culturali della cittadina di provincia di Nogent dove le donne non potevano seguire liberamente la propria indole creativa e spesso le doti artistiche venivano obnubilate per mansioni considerate più femminili come l’insegnamento. Fu così che, nel 1881, la famiglia Claudel si trasferì al 135 bis di Boulevard Montparnasse e Camille iniziò gli studi all’Accademia Colarossi.

Parigi era la città dei sogni, la metropoli dove tutto era possibile. Immersa nella celebrazione della Repubblica, la Ville Lumière era rappresentata dalla bandiera tricolore e dall’inno nazionale con il suo motto Liberté, Égalité, Fraternité. La Parigi della Belle Epoque mostrava i segni di una modernità inarrestabile. Ovunque nascevano locali, cinema, centri commerciali: il Moulin de la Galette, il Café du Rat-Mort, il Moulin Rouge, la pâtisserie Gloppe, le proiezioni dei fratelli Lumière nel Grand Café, Le Chat Noir, gli spettacoli di can-can di Louise Weber, l’imponente Galeries La Fayette. Brillava questa città e con lei la giovane Camille, non ancora ventenne, che aveva scelto la scultura per dare voce al fuoco che le ardeva dentro.

Dopo anni trascorsi a modellare l’argilla di Villeneuve, quella stessa argilla utilizzata dagli operai del posto per costruire le tegole delle case, dopo aver immerso le mani nel prezioso oro rosso e fangoso e aver provato a ricreare le sagome inquietanti ammirate a La hottée du diable, un luogo spettrale nel quale si rifugiava per allontanarsi dalla famiglia e dai litigi con la madre, dopo tutto questo tempo Camille poteva trasformare la sua arte in creazioni da esporre nell’atelier che prese in affitto con altre scultrici (tra cui l’inglese Jessie Lipscomb) e dove poteva prendere lezioni da Alfred Boucher, che settimanalmente si recava a Parigi. In questo contesto e per mano dello stesso Bouchet, Camille Claudel conobbe Auguste Rodin. Fu un amore appassionato e feroce, fin dal primo incontro.

Mi sembra di vedere Rodin, mentre si aggira nell’atelier di Camille, osserva la scultura dedicata al fratello Paul, tempo dopo denominata Il giovane Achille, e il busto di una donna alsaziana, una lavoratrice della famiglia Claudel. Sono accanto a lui mentre ascolta le parole di Camille e riconosce, nei suoi occhi, quel fuoco ardente, quella bramosia, quel bisogno di spingersi sempre più in là con i materiali, di scoprire quello che le mani possono creare, lo stesso fuoco che lo animava agli inizi della sua carriera, lui che ha ventiquattro anni in più di Camille.

Un anno dopo, Rodin volle la giovane al suo fianco per realizzare quello che diventerà Les Bourgeois de Calais. Maturò e si consolidò quell’«amore puro e ardente, quel furore» di cui parlava Rodin in una delle poche lettere ritrovate molti anni dopo che risaliva a questo periodo, quello della loro cieca e violenta relazione. Immersa nella polvere, Camille scolpiva con fervore giorno e notte, mentre Rodin guidava le sue mani «mostrandole l’oro». Spesso il silenzio dell’atelier veniva spezzato dalle impetuose scenate di gelosia di Camille dalle quali Rodin tentava di sfuggire per poi prostrarsi in umili scuse anche scritte, «in ginocchio davanti al tuo bel corpo che stringo». Rodin era legato da molto tempo a Rose Beuret, «una sarta dai tratti virili, dai grandi occhi d'agata con riflessi dorati» che gli aveva dato un figlio e che gli perdonava le innumerevoli infedeltà. Ma Camille no, lei voleva il corpo e l’anima di Rodin, l’amore assoluto, totalizzante, che potesse appagare il vuoto lasciato da una madre imperturbabile, che le aveva sempre preferito la sorella minore Louise, e da un padre costantemente assente. Scavando nel vuoto di Camille, Rodin la illuderà promettendole una vita insieme e il matrimonio da lei tanto atteso di ritorno da un loro viaggio in Italia, matrimonio che avverrà solo molti anni dopo ma non con Camille Claudel bensì con Rose Beuret.

Tra bugie, lettere infuocate d’amore e incontri furtivi, la loro relazione proseguì fino a quando Camille restò incinta di Auguste Rodin. Quel bambino non verrà alla luce; Camille sarà costretta, forse proprio dallo stesso Rodin, a ricorrere all’aborto confidandosi poi con alcune amiche. L’accaduto non tarderà a giungere alle orecchie del fratello Paul che le intimiderà il manicomio per il «crimine commesso».

Per Camille, la discesa nel dolore, nell’umiliazione e nella frustrazione sarà inarrestabile. Non potendo contare sull’amore di Rodin, la giovane scultrice decise di allontanarsi da lui anche professionalmente rinunciando, per sempre, all’unica persona, a suo parere, in grado di completare la sua vita artistica e sentimentale. Il distacco dal mondo di Rodin sbatterà in faccia alla scultrice il pregiudizio sessista dell’epoca: i critici la consideravano l’allieva di Rodin e le sue opere faticavano a trovare riconoscimenti al di fuori degli amici e dei conoscenti. La lontananza dal centro cittadino del suo nuovo atelier non incoraggiava i possibili committenti e relegava Camille Claudel in una situazione di solitudine vorticosa. I problemi finanziari non tardarono a farsi sentire. Il fratello e la madre sopperivano mensilmente ai vuoti economici di Camille ma di quelli emotivi nessuno si occupava. A nulla serviranno la boccata d’ossigeno del successo, seppur temporaneo e a tratti complicato, raggiunto grazie alla realizzazione dell’opera L'âge mûr, il trasferimento al 19 di Quai Bourbon, il breve saggio pubblicato sulla rivista Femina e firmato dalla giornalista Gabrielle Rèval che descriveva la scultrice come l’incarnazione del genio femminile o il sostegno di Eugène Blot. Questi eventi si rivelarono vani di fronte alla presa di posizione della famiglia di Camille: dopo la morte del padre, avvenuta il 2 marzo del 1913 e di cui la giovane non venne informata, la signora Claudel riunì attorno a sé gli unici figli da lei riconosciuti come tali, Louise e Paul, decidendo di tutelare l’immagine della famiglia da Camille. Si rivolsero al dottor Michaux che dichiarò, in un certificato medico, la necessità «di internare la ragazza». Il giorno dopo il certificato venne controfirmato dalla signora Claudel.

Camille venne prelevata con la forza dal suo atelier il 10 marzo, a soli otto giorni di distanza dalla morte del padre.

Dai manicomi nei quali venne internata per trent’anni, fino alla sua morte, scrisse lunghe e accorate lettere alla madre, alla sorella Louise, al fratello Paul persino al dottor Michaux, lettere che non ebbero risposta e non sortirono alcun cambiamento al suo destino. Accusata di vestirsi male, di badare poco all’igiene, di vivere nella polvere, di essere terrorizzata da quella che lei chiamava la banda Rodin, di condurre un’esistenza emancipata, Camille Claudel venne dimenticata dalla famiglia, volutamente abbandonata tra le mura di un manicomio. Neppure le richieste dei medici agli inizi degli anni Venti, come quelle del dottor Brunet e più tardi del dottor Charpenel che chiedevano alla signora Claudel di riprendere in famiglia la figlia per l’attenuazione delle sue condizioni deliranti, riuscirono a convincere la donna a far uscire Camille.

Dopo anni di ricerche, superando anche le difficoltà nel reperimento delle informazioni causate dalla Prima guerra mondiale, Jessie Lipscomb scoprì l’indirizzo del manicomio in cui era internata l’amica. Vi si recò con il marito William Elborne e a lui chiese di scattare una foto a Camille. Lo sguardo spento, assente, svuotato. «Non era pazza, ma era lontana»: così parlerà Jessie. Lo sguardo di una donna altrove come se Camille non facesse più parte di questo mondo.

Con gli anni, le condizioni fisiche di Camille Claudel si aggravarono sempre di più ma le lettere dei direttori del sanatorio inviate ai famigliari cadevano, ogni volta, nel vuoto. E così la situazione precipitò fino al giorno della sua morte, il 19 ottobre del 1943. Nessuno andò al suo funerale. Durante la sepoltura, insieme al prete, solamente alcuni membri dell’ospedale.

 

Il fuoco di Camille Claudel, la sua tenacia, il suo carattere indomito, sono stati spenti e annientati prima in vita e poi in morte. Ci sono voluti anni e poi decenni perché il suo nome comparisse nelle biografie e nei libri, perché la sua arte venisse riconosciuta non come costola di Auguste Rodin ma nella sua originalità e specificità.

Il prossimo anno, il 19 ottobre del 2023, si celebrano ottant’anni dalla sua morte. Le parole sono l’unico strumento che ho, che abbiamo, per mantenere vivo il ricordo del passato, per restituirle quello che, in vita, non ha mai avuto.

 

 

martedì 20 settembre 2022

Prima che mi sfugga. L'esordio di Anne Pauly

                                                                                        

J’ai cueilli ce brin de bruyère

L’automne est morte souviens-t’en

Nous ne nous verrons plus sur terre

Odeur du temps brin de bruyère

Et souviens-toi que je t’attends.

Apollinaire

 

                                                                                                                                                                             

Cosa resta dell'essere figli dopo la morte dei genitori e cosa rimane del tempo e della storia lasciati in eredità? Anne Pauly sembra rispondere a queste domande nel suo libro d'esordio Prima che mi sfugga (L'orma editore, traduzione di Marta Rizzo), la storia, toccante e travolgente, del padre dell'autrice, Jean-Pierre Pauly, "la canaglia senza una gamba, il catorcio, la vecchia carcassa". Tra fiction e autofiction, questo romanzo racconta cosa accade nella vita di Anne e del fratello dopo la morte del padre ed è un racconto che viene scritto prima che le immagini sfuggano, trasportate dal vento dell'oblio, immagini che riappaiono nella memoria dell'autrice come fotogrammi posti gli uni accanto agli altri a formare un quadro, commovente e a tratti malinconico, di un padre mai realmente conosciuto, una figura sfuggente.



Gli istanti che hanno preceduto la morte si sovrappongono ai momenti del funerale e poi all'immagine di Anne tra gli scatoloni nella casa del padre nelle settimane successive alla sepoltura. È qui, tra queste mura, in questa casa angusta, che le cose lasciate dal padre assumono un significato particolare. Cose e non oggetti, come le intendeva Remo Bodei. Le cose rappresentano le relazioni e gli affetti, i valori e i simboli. 


"A poco a poco, una volta scomparse dall'orizzonte, le cose sarebbero scomparse anche dalla nostra memoria, assieme alla loro storia. Ecco come si intrecciano l'oblio e l'abbandono, e mi faceva venire voglia di piangere". È Anne, più del fratello e di chiunque altro famigliare e amico, a scontrarsi con ciò che resta del padre. È lei a trovare conforto nelle parole di Juliette, unico legame che il padre avesse conservato dopo il matrimonio e i figli.


Le cose definiscono anche il rapporto di Jean-Pierre Pauly con il tempo e Anne ne misura la profondità e le sfumature frugando negli scatoloni, nei cassetti, aprendo armadi e cassepanche e trovando il coraggio di scendere al pianterreno della casa paterna dove lei e il fratello hanno ammassato, anno dopo anno, le tracce delle loro esistenze, trasformando lo spazio in un deposito. Anne sceglie cosa salvare, cosa preservare e portare con sé, nel suo presente, per dare un senso alla vita che se n’è andata e a quella che continua.


Nel tentativo di nominare le cose e fissarle nella memoria per riconoscerle e capirle, viene definito il ritratto di Jean-Pierre Pauly. Rancoroso, violento, un uomo che incute paura nella moglie e nei figli, che ha trascinato in una voragine tempestosa il figlio maschio e ha lasciato segni indelebili nella stessa autrice. Ma Jean-Pierre Pauly è anche l’uomo “giusto, sensibile, contemplativo e silenzioso”, l’uomo che ama le parole e nelle quali ha tentato di rifugiarsi prima che “vita, violenza e alcol si mettessero in mezzo”. Nel dipingere il padre, Anne Pauly tratteggia anche quella che è stata la vita famigliare, la vita condivisa con lui.


Rovistando nella casa paterna, Anne fa i conti con i limiti dei suoi genitori ed è quella, come ha scritto Lydia Flem, “l’ultima occasione per guardarli nella loro fragilità. In fin dei conti, non erano che dei poveri esseri umani”.

venerdì 16 settembre 2022

Stupro, maternità e follia: la storia di Génie la matta scritta da Inés Cagnati

 

L’alienazione, Inés Cagnati, se la porta appresso dalla nascita. Figlia di immigrati italiani che si trasferirono nel sud ovest della Francia a cavallo tra le due guerre in cerca di fortuna, la piccola Inés crebbe tra il fango delle fattorie di Monclar-d'Agénais, dove lavoravano decine di braccianti come i suoi genitori che trascorrevano le giornate nelle stalle, non avevano tempo per badare ai figli e la domenica si riunivano con i connazionali. Erano i contadini stranieri, i poveri che non sapevano leggere e scrivere e non avevano diritti. È questo il destino della famiglia Cagnati e quello di Inés. Una bambina infelice che sentirà di appartenere, per tutta la vita, a una minoranza o anche meno come confesserà in una delle sue rare apparizioni televisive nel 1989: «Quando i miei genitori mi hanno naturalizzata, è stata una tragedia perché non ero francese e non ero più neanche italiana. Quindi non ero niente», aggiungendo poi: «L'infanzia è stata per me un periodo completamente infelice». E questa infelicità, questo senso di estraneità, accompagnerà Cagnati fino alla fine dei suoi giorni. Un’esistenza lontana, separata dal resto della società come i personaggi dei suoi libri, per lo più bambine, ragazze e donne escluse ed emarginate alle quali viene sottratto tutto anche il calore famigliare e, più specificatamente, quello materno.


Immergendomi nella rappresentazione del mondo materno di Inés Cagnati, ho come l’impressione di affondare nel tempo proustianamente perduto dell’infanzia che è innanzitutto un ritorno proprio alla figura della madre e il cui ricordo è spesso corroborato da profonde angosce come quelle raccontate nel libro Génie la matta, pubblicato in Francia nel 1976 e tradotto da Ena Marchi per Adelphi agli inizi del 2022. La lama affilata della scrittura di Inès Cagnati recide qualsiasi tipo di racconto celebrativo della madre inserendo la narrazione in un climax emotivo che mi ha sconvolta e pervasa nello stesso tempo.




Sullo sfondo di una terra brulla e inospitale, la terra selvaggia della campagna francese attraversata da fiumi e foschie, da salici tristi e alberi spogli, da campi sterminati schiacciati da lembi di cielo plumbeo, dove i ritmi della vita seguono quelli della natura, in quella terra vaga un’anima disperata. Si chiama Eugenie ma tutti la chiamano Génie la matta. Ripudiata dalla famiglia in seguito allo stupro subito, Eugenie dà alla luce Marie rifugiandosi in una casa diroccata in mezzo al bosco. Per guadagnarsi da vivere inizia a lavorare nelle fattorie, accettando qualsiasi tipo di mansione pur di portare a casa qualche tozzo di pane e altri pochi avanzi di cibo per lei e la figlia. L’infanzia di Marie è racchiusa tra le mura di questa casa che il buio della notte sembra inghiottire facendola risorgere alle prime luci dell’alba. È tra questi sentieri, tra i campi e le fattorie dove lavora Eugenie, che Marie attende il ritorno del corpo materno, del suo calore dopo una giornata di lavoro, quell’odore pungente di animali e stalla ma per la figlia così confortante.

 

Per Marie la madre è un luogo, oltre che un corpo, che avrebbe voluto amare, abitare, nel quale avrebbe voluto scivolare per sentirsi protetta, per imparare a riconoscerne il profumo, a percepirne i mutamenti. Ma tutto ciò le viene negato e quel luogo si trasforma in una terra sconosciuta, in un corpo proibito.


Dopo la lettura di Cagnati sono andata a rileggere le parole strazianti e terribili di Marguerite Duras che del corpo materno ne ha fatto materiale letterario da scoprire e riscoprire. «Ho avuto in sorte una madre dominata da una disperazione totale, dalla quale nemmeno i rari momenti felici della vita riuscivano a distoglierla. (...) Succedeva ogni giorno. Di questo sono sicura. Bruscamente. A un dato momento, ogni giorno, appariva la disperazione». E le parole di Duras mi hanno condotta a quelle di Annie Ernaux che attraverso la scrittura ha rimesso al mondo la madre e ha deciso di abitare quel corpo, forse per l'ultima volta, dopo averlo rinnegato per troppo tempo provando a riempire il vuoto con il cibo, i silenzi e le distanze. «Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo».

 

Attende in silenzio, Marie. Attende l’abbraccio materno, la carezza prima di addormentarsi, la storia della buonanotte raccontata con voce soave. Nel tempo, Marie aspetterà invano il corpo di sua madre che, invece, si allontanerà sempre di più fino a scomparire tra la foschia dei campi trasformandosi in quel luogo sconosciuto e proibito evocato da Marguerite Duras e Annie Ernaux, incompreso e misterioso, ma anche crudele, distaccato e brutale.

 

La storia di Génie la matta, questa straziante storia del rifiuto e dell’abbandono materno, è racchiusa nel perimetro della narrazione della follia. Eugenie viene trattata da tutti, in primis da sua madre che l’ha ripudiata, come una matta che è meglio tra le mura di un manicomio che libera tra la folla poiché: «una matta in libertà tutti la guardano ma rinchiusa se la dimenticano». Parole di una violenza inaudita ampliate dalla stessa autrice nell’intervista posta a chiusura del libro: «fuori da quelle mura sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile». Ma in questo racconto non c’è spazio per la speranza e il desiderio.

Nel momento in cui Eugenie alza la testa e tenta di uscire dal fango in cui sua madre l’ha relegata per tutta la vita, il destino si accanisce con ferocia su questa giovane donna spingendola a compiere il gesto estremo, condannando la sua stessa vita al mutismo e al silenzio eterni.


Inés Cagnati, nell’intervista in calce al romanzo, parla di sé, della sua scrittura, dell’intreccio (vero o presunto) tra biografia e autobiografia. Parla, anche, delle dolci isole profumate di azzurro che Marie descrive alla madre e dice che forse sì, esistono ma lei non le ha mai incontrate. «Credo siano anche in noi, o soltanto in noi». Tra sogno e incubo, la scrittura di Cagnati si muove su questi binari e io attendo, trepidante, di poter leggere gli altri libri (pochi ma preziosi) che lei ha scritto mentre era in vita, lontana dai salotti parigini, nel silenzio che si confà alla scrittura.