Questo articolo è apparso sul numero 13 di Mollette, progetto di Davide Bregola e Jacopo Masini.
«Una splendida giovane, nel fulgore trionfale della bellezza e del genio,
questa giovane dalla fronte superba, sovrastante due occhi magnifici, di quel
blu così raro da trovare se non nei romanzi»: così veniva descritta Camille
Claudel dal fratello Paul in una lunga e malinconica lettera indirizzata a
Eugène Blot intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. All'epoca,
Camille Claudel era rinchiusa nel manicomio di Montdevergues dove sarebbe morta
una decina d'anni dopo, in una fredda giornata di ottobre del 1943. Le sue
peregrinazioni tra un sanatorio e l'altro iniziarono nel marzo del 1913 quando
venne prelevata dalla sua abitazione, al 19 di Quai Bourbon, nel cuore di
Parigi. «Del sogno che è stata la mia vita, questo è l'incubo», scriverà
dall'abisso di Montdevergues. Ricordi di una vita lontana, immagini dai
contorni sfumati che forse le ritornarono alla mente guardando negli occhi
Jessie Lipscomb, un volto amico, uno dei pochi che Camille vide negli anni della
sua forzata reclusione.
Jessie era l'amica inglese con la quale Camille aveva condiviso per due
anni, dal 1882 al 1884, lo studio preso in affitto al 117 di
Notre-Dame-des-Champs, nel quartiere Montparnasse. Quel fulgore che aveva
contraddistinto la giovane negli anni Ottanta dell'Ottocento, tra le mura del
manicomio era scomparso, coperto da una coltre di tristezza che Jessie non poté
far altro che memorizzare con rassegnazione chiedendo al marito di scattare una
foto a Camille. L'abito scuro, il cappello a coprire interamente quello che un
tempo erano i capelli lucenti e lunghi fino alle reni. La fierezza, il
coraggio, la superiorità di chi «ha ricevuto molto e lo sa», tutto in lei si era
dissolto. Camille Claudel, come l’aveva conosciuta Jessie, non c'era più. Così
come non c'era più il quartiere Montparnasse come lo ricordavano le due donne,
il luogo incantato dove la favola ebbe inizio e dove tragicamente finì.
Irrequieta, testarda e ambiziosa, Camille Claudel apparteneva alla
borghesia e la madre, arcigna e anaffettiva ereditiera della provincia dello
Champagne, aveva capito fin da subito che proprio quella figlia non avrebbe
fatto parte della classe sociale di francesi dedite al matrimonio e alla
famiglia. Tra loro non scorreva buon sangue. Paul, il fratello di Camille,
descrisse questo rapporto come tumultuoso e burrascoso, puntellato da continui
scontri ma sul terreno dell'educazione e dell'istruzione la signora Claudel conveniva
con la figlia nell’ambire alle migliori scuole. Da qui la necessità di lasciare
Villeneuve-sur-Fère, il paese tra le dolci colline dello Champagne che diede i
natali a Paul, prima per Nogent-sur-Seine, dove Camille prese lezioni private dallo
scultore Alfred Boucher, poi per la vivace e acculturata Parigi. Fu proprio
Camille a convincere i genitori a scegliere il quartiere Montparnasse, meta di
molti artisti dell’epoca, per sfuggire alle ristrettezze culturali della
cittadina di provincia di Nogent dove le donne non potevano seguire liberamente
la propria indole creativa e spesso le doti artistiche venivano obnubilate per
mansioni considerate più femminili come l’insegnamento. Fu così che, nel 1881,
la famiglia Claudel si trasferì al 135 bis di Boulevard Montparnasse e Camille
iniziò gli studi all’Accademia Colarossi.
Parigi era la città dei sogni, la metropoli dove tutto era possibile. Immersa
nella celebrazione della Repubblica, la Ville Lumière era rappresentata dalla
bandiera tricolore e dall’inno nazionale con il suo motto Liberté, Égalité,
Fraternité. La Parigi della Belle Epoque mostrava i segni di una
modernità inarrestabile. Ovunque nascevano locali, cinema, centri commerciali:
il Moulin de la Galette, il Café du Rat-Mort, il Moulin Rouge, la pâtisserie
Gloppe, le proiezioni dei fratelli Lumière nel Grand Café, Le Chat Noir, gli
spettacoli di can-can di Louise Weber, l’imponente Galeries La Fayette.
Brillava questa città e con lei la giovane Camille, non ancora ventenne, che aveva
scelto la scultura per dare voce al fuoco che le ardeva dentro.
Dopo anni trascorsi a modellare l’argilla di Villeneuve, quella stessa
argilla utilizzata dagli operai del posto per costruire le tegole delle case,
dopo aver immerso le mani nel prezioso oro rosso e fangoso e aver provato a
ricreare le sagome inquietanti ammirate a La hottée du diable, un luogo
spettrale nel quale si rifugiava per allontanarsi dalla famiglia e dai litigi
con la madre, dopo tutto questo tempo Camille poteva trasformare la sua arte in
creazioni da esporre nell’atelier che prese in affitto con altre scultrici (tra
cui l’inglese Jessie Lipscomb) e dove poteva prendere lezioni da Alfred
Boucher, che settimanalmente si recava a Parigi. In questo contesto e per mano
dello stesso Bouchet, Camille Claudel conobbe Auguste Rodin. Fu un amore appassionato
e feroce, fin dal primo incontro.
Mi sembra di vedere Rodin, mentre si aggira nell’atelier di Camille,
osserva la scultura dedicata al fratello Paul, tempo dopo denominata Il
giovane Achille, e il busto di una donna alsaziana, una lavoratrice della
famiglia Claudel. Sono accanto a lui mentre ascolta le parole di Camille e riconosce,
nei suoi occhi, quel fuoco ardente, quella bramosia, quel bisogno di spingersi
sempre più in là con i materiali, di scoprire quello che le mani possono creare,
lo stesso fuoco che lo animava agli inizi della sua carriera, lui che ha
ventiquattro anni in più di Camille.
Un anno dopo, Rodin volle la giovane al suo fianco per realizzare quello
che diventerà Les Bourgeois de Calais. Maturò e si consolidò quell’«amore
puro e ardente, quel furore» di cui parlava Rodin in una delle poche lettere
ritrovate molti anni dopo che risaliva a questo periodo, quello della loro
cieca e violenta relazione. Immersa nella polvere, Camille scolpiva con fervore
giorno e notte, mentre Rodin guidava le sue mani «mostrandole l’oro». Spesso il
silenzio dell’atelier veniva spezzato dalle impetuose scenate di gelosia di
Camille dalle quali Rodin tentava di sfuggire per poi prostrarsi in umili scuse
anche scritte, «in ginocchio davanti al tuo bel corpo che stringo». Rodin era
legato da molto tempo a Rose Beuret, «una sarta dai tratti virili, dai grandi
occhi d'agata con riflessi dorati» che gli aveva dato un figlio e che gli
perdonava le innumerevoli infedeltà. Ma Camille no, lei voleva il corpo e
l’anima di Rodin, l’amore assoluto, totalizzante, che potesse appagare il vuoto
lasciato da una madre imperturbabile, che le aveva sempre preferito la sorella
minore Louise, e da un padre costantemente assente. Scavando nel vuoto di
Camille, Rodin la illuderà promettendole una vita insieme e il matrimonio da
lei tanto atteso di ritorno da un loro viaggio in Italia, matrimonio che
avverrà solo molti anni dopo ma non con Camille Claudel bensì con Rose Beuret.
Tra bugie, lettere infuocate d’amore e incontri furtivi, la loro
relazione proseguì fino a quando Camille restò incinta di Auguste Rodin. Quel
bambino non verrà alla luce; Camille sarà costretta, forse proprio dallo stesso
Rodin, a ricorrere all’aborto confidandosi poi con alcune amiche. L’accaduto
non tarderà a giungere alle orecchie del fratello Paul che le intimiderà il
manicomio per il «crimine commesso».
Per Camille, la discesa nel dolore, nell’umiliazione e nella frustrazione
sarà inarrestabile. Non potendo contare sull’amore di Rodin, la giovane
scultrice decise di allontanarsi da lui anche professionalmente rinunciando,
per sempre, all’unica persona, a suo parere, in grado di completare la sua vita
artistica e sentimentale. Il distacco dal mondo di Rodin sbatterà in faccia
alla scultrice il pregiudizio sessista dell’epoca: i critici la consideravano l’allieva
di Rodin e le sue opere faticavano a trovare riconoscimenti al di fuori degli
amici e dei conoscenti. La lontananza dal centro cittadino del suo nuovo
atelier non incoraggiava i possibili committenti e relegava Camille Claudel in
una situazione di solitudine vorticosa. I problemi finanziari non tardarono a
farsi sentire. Il fratello e la madre sopperivano mensilmente ai vuoti
economici di Camille ma di quelli emotivi nessuno si occupava. A nulla serviranno
la boccata d’ossigeno del successo, seppur temporaneo e a tratti complicato, raggiunto
grazie alla realizzazione dell’opera L'âge mûr, il trasferimento al 19
di Quai Bourbon, il breve saggio pubblicato sulla rivista Femina e
firmato dalla giornalista Gabrielle Rèval che descriveva la scultrice come
l’incarnazione del genio femminile o il sostegno di Eugène Blot. Questi eventi
si rivelarono vani di fronte alla presa di posizione della famiglia di Camille:
dopo la morte del padre, avvenuta il 2 marzo del 1913 e di cui la giovane non
venne informata, la signora Claudel riunì attorno a sé gli unici figli da lei
riconosciuti come tali, Louise e Paul, decidendo di tutelare l’immagine della
famiglia da Camille. Si rivolsero al dottor Michaux che dichiarò, in un
certificato medico, la necessità «di internare la ragazza». Il giorno dopo il
certificato venne controfirmato dalla signora Claudel.
Camille venne prelevata con la forza dal suo atelier il 10 marzo, a soli
otto giorni di distanza dalla morte del padre.
Dai manicomi nei quali venne internata per trent’anni, fino alla sua
morte, scrisse lunghe e accorate lettere alla madre, alla sorella Louise, al
fratello Paul persino al dottor Michaux, lettere che non ebbero risposta e non
sortirono alcun cambiamento al suo destino. Accusata di vestirsi male, di
badare poco all’igiene, di vivere nella polvere, di essere terrorizzata da
quella che lei chiamava la banda Rodin, di condurre un’esistenza emancipata, Camille
Claudel venne dimenticata dalla famiglia, volutamente abbandonata tra le mura
di un manicomio. Neppure le richieste dei medici agli inizi degli anni Venti,
come quelle del dottor Brunet e più tardi del dottor Charpenel che chiedevano
alla signora Claudel di riprendere in famiglia la figlia per l’attenuazione
delle sue condizioni deliranti, riuscirono a convincere la donna a far uscire
Camille.
Dopo anni di ricerche, superando anche le difficoltà nel reperimento
delle informazioni causate dalla Prima guerra mondiale, Jessie Lipscomb scoprì
l’indirizzo del manicomio in cui era internata l’amica. Vi si recò con il
marito William Elborne e a lui chiese di scattare una foto a Camille. Lo
sguardo spento, assente, svuotato. «Non era pazza, ma era lontana»: così
parlerà Jessie. Lo sguardo di una donna altrove come se Camille non facesse più
parte di questo mondo.
Con gli anni, le condizioni fisiche di Camille Claudel si aggravarono
sempre di più ma le lettere dei direttori del sanatorio inviate ai famigliari
cadevano, ogni volta, nel vuoto. E così la situazione precipitò fino al giorno
della sua morte, il 19 ottobre del 1943. Nessuno andò al suo funerale. Durante
la sepoltura, insieme al prete, solamente alcuni membri dell’ospedale.
Il fuoco di Camille Claudel, la sua tenacia, il suo carattere indomito,
sono stati spenti e annientati prima in vita e poi in morte. Ci sono voluti
anni e poi decenni perché il suo nome comparisse nelle biografie e nei libri,
perché la sua arte venisse riconosciuta non come costola di Auguste Rodin ma
nella sua originalità e specificità.
Il prossimo anno, il 19 ottobre del 2023, si celebrano ottant’anni dalla
sua morte. Le parole sono l’unico strumento che ho, che abbiamo, per mantenere
vivo il ricordo del passato, per restituirle quello che, in vita, non ha mai
avuto.