«Che cosa ha portato all’impiccagione delle
ancelle e che cosa c’era davvero nella mente di Penelope? La storia, così come
viene raccontata nell’Odissea, non è del tutto logica: ci sono troppe
incongruenze. Sono sempre stata tormentata dal pensiero di quelle ancelle
impiccate e, nel Canto di Penelope, anche Penelope lo è». Credo si possa
partire dalla domanda e dalle successive affermazioni di Margaret Atwood racchiuse nell’introduzione al suo
libro, Il Canto di Penelope (Ponte alle Grazie, 2018) per parlare della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.
Penelope rappresenta la figura
mitica della moglie saggia e devota, permeata da una fedeltà senza eguali.
Acuta e intelligente, Penelope si svela attraverso il silenzio. La sua voce è
un sogno, arriva da lontano e rifugge verso un luogo ancora più remoto.
Paziente e condiscendente al volere altrui, Penelope attende il ritorno di
Ulisse.
Margaret Atwood riscrive la
storia, alternando il racconto personale di Penelope al canto corale delle
ancelle. In questo modo, Atwood rielabora i connotati delle protagoniste
femminili, portando a galla il loro sostrato emotivo personale e collettivo. Il
risultato è un quadro differente da quello che la storia ci ha insegnato.
Nella rivisitazione di Atwood c’è
la necessità, per sua stessa ammissione, di annullare quell’idea che ha
resistito ai secoli estendendosi fino all’età vittoriana (e oltre) secondo la
quale: «a lady should never get her name into the paper, except for three times
in her life: born, married, died. Other than that, you stayed out of public
view and concerned yourself with the healthy home. So that was the fate of
Penelope. But, as she says in the first chapter, I don’t approve of this
version. There’s more to it, and to me».
E proprio dall’esigenza e dalla
necessità della voce delle donne nasce il recente racconto di Maria Attanasio
nel libro Lo splendore del niente e altre storie (Sellerio, 2020):
«Ricostruendo, tra immaginario storico e tracce documentali, il pensare e
l’operare di Catarina, Francisca, Annarcangela, Ignazia, ma anche delle
protagoniste degli altri racconti, la mia vita si è fusa con la loro in una
sorta di transfert, di autobiografia traslata nel tempo dell’esclusione dal
linguaggio che ha caratterizzato l’identità di genere; dove però è possibile
ritrovare sorprendenti storie di coraggio e di resistenza alla discriminazione
e all’ingiustizia». Restando nel perimetro delle voci femminili e dall’importanza
di una solidarietà e comunità di visioni, vi è il romanzo Cara Pace di
Lisa Ginzburg, la quale, in occasione della presentazione del suo libro
nell’ultima edizione del festival Una marina di libri, ha dichiarato che
«è incredibile scoprire quanto lucido e preveggente sia stato il suo pensiero
(il pensiero della nonna, ndr) sulla solitudine femminile, una solitudine
legata alla forza di vivere. Credo che oggi la risposta a questa solitudine sia
il ritrovarsi delle scrittrici, come un rito tribale di donne che si mettono in
cerchio e si raccontano le loro storie ma senza che le diversità sia un
problema, come per esempio era i tempi di mia madre, Anna Rossi-Doria, storica
e femminista».
Se le battaglie per la libertà
sessuale e per la legalizzazione dell’aborto hanno portato a una maggiore
consapevolezza del corpo femminile e dei diritti delle donne è altresì vero che
il corpo delle donne, così come la voce, faticano, ieri come oggi, a trovare
spazio in molti ambiti della società. Pertanto, ci si chiede, dove e fino a che
punto si può parlare di inclusione della voce femminile e del corpo femminile?
Il corpo delle donne lo vediamo
apparire nei congressi, presenziare nei luoghi di potere (mai in maggioranza),
fare brevi e fugaci comparse per poi dileguarsi dietro le quinte. Il corpo
femminile si può mostrare purché non vada ad urtare la sensibilità di chi lo
circonda: non deve essere seducente pena l’affidabilità della donna in
questione, per contro non deve apparire sciatto e trascurato, in tal caso, la
donna rischierebbe di essere additata come inadeguata rispetto ai canoni di
presentabilità imposti dalla società (in questo la Storia è maestra di lezioni
non sempre edificanti: basti pensare alle offese rivolte, tempo fa, alla giornalista
Giovanna Botteri).
Oltre ai casi di omologazione e
strumentalizzazione del corpo femminile, ad essere colpita è spesso (e,
talvolta, soprattutto) la voce femminile.
La voce veicola il pensiero,
trascende il tempo e lo spazio. Togliere la voce alla donna equivale ad
eclissarla, a farla sparire. La violenza che colpisce la voce non è meno
aggressiva di quella che colpisce il corpo. I danni saranno, allo stesso modo,
irreparabili. Assistiamo a femminicidi che iniziano con la sottrazione della
voce per arrivare all’annullamento del corpo.
«Non siamo usciti dal patriarcato
nonostante le conquiste e le emancipazioni. Ancora i ruoli funzionano sotto una
apparente parità». Le parole di Dacia Maraini, durante l’intervista in
occasione dell’uscita del libro Tre donne (Rizzoli, 2017), risuonano ancora
attuali.
Parafrasando Michela Murgia (in
libreria con Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più edito
da Einaudi), il patriarcato attraversa tutte noi, le nostre vite sono permeate
da quella cultura silente del maschio dominante, colui che ha il diritto (e
detiene il potere) di farci stare zitte, mortificando la nostra persona e
impedendoci di realizzarci ed esprimerci pienamente. Il patriarcato si regge
anche e soprattutto sulla voce. I gesti sono accompagnati da un linguaggio che,
edulcorando o meno gli episodi, giustifica i modi utilizzati affinché vengano
rispettate delle gerarchie strutturali sulle quali i patriarchi vorrebbero
basare la nostra società.
Tempo fa, parlando di
gender gap, ho provato a dipingere la storia delle donne nella scienza notando
come, dati alla mano, ci sia ancora da lavorare per sanare quel dislivello di
genere che ha radici così profonde non solo nella cultura italiana ma in tutte
le culture tanto da determinare il problema a livello internazionale. Se da un
lato serve una politica in grado di risolvere il gender gap, dall’altro serve,
altresì, una società in grado di accogliere quella che potrebbe essere definita
una rivoluzione sociale poiché, per la prima volta nella storia, si tratterebbe
di porre fine alla genderizzazione di oggetti di uso quotidiano, di nomi, di
modi di dire, di atteggiamenti, persino di comportamenti fino ad oggi non
inclusivi e, talvolta, discriminanti.
Non solo nella Giornata Internazionale Internazionale contro la violenza sulle donne ma ogni giorno, la collettività è chiamata a combattere in nome dell’inclusione e dei diritti contro il pregiudizio di genere (e di qualsiasi altra natura), contro il maschilismo e il patriarcato. Si tratta di una battaglia che si compie partendo dal linguaggio e dalle parole. Le parole ci definiscono, sono mondi che attendono di essere esplorati; attraverso l’evoluzione e l’etimo delle parole scopriamo una storia spesso collettiva. Partiamo dalle parole, interveniamo sul linguaggio laddove questo rifletta la prevaricazione e il dominio. Attraverso le parole si esprimono i rapporti, privati e pubblici: se non interveniamo per cambiare le dinamiche linguistiche non ci sarà speranza di poter cambiare altri meccanismi più subdoli ma non per questo meno necessari.
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