In occasione dell'anniversario della scomparsa di Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 - Parigi, 3 agosto 1954), pubblico alcune pagine a lei dedicate e inserite nel mio libro L'evento della scrittura. Sull'autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux (13lab Editore, Milano 2021).
Abbagliati dalla luce delle sfere di vetro policrome, risaliamo i gradini che portano all'ingresso del Métro Palais Royal-Musée du Louvre. La sinfonia cromatica del Chiosco dei Nottambuli, opera realizzata e completata nel 2000 da Jean-Michel Othoniel per festeggiare il centenario della metropolitana parigina, accompagna lo sguardo su Place Colette. Tra la solennità storica del Palais Royal e dell'Hotel du Louvre si inseriscono nuovi livelli di esperienza cittadina: storiche caffetterie poi diventate ristoranti, luoghi d'incontro per artisti e intellettuali, flâneurs postmoderni che vivono lo spazio pubblico parigino come dimensione individuale animati da uno spirito indipendente e distaccati dalla massa.
All'interno del
perimetro di Place Colette non è difficile immaginare, per qualche istante,
quel brulicare incessante che caratterizzava Parigi sul finire del XIX secolo, quando
i riflettori si accendevano sulla Tour Eiffel durante l'Expo francese del 1889,
che anticipava solo di qualche anno la successiva Exposition Universelle del
1900, di gran lunga la più sfavillante e sfarzosa di tutti i tempi. Allora, la
gloriosa Parigi, metropoli di grandi investimenti architettonici e culturali,
fungeva da catalizzatrice per artisti e viveurs provenienti da tutto il
mondo. Erano gli anni ruggenti: l'Europa stava mutando a ritmi incalzanti e il
vecchio continente sembrava ruotare attorno alla città per eccellenza
"dove si balla e si gode". La musica riprodotta dai primi fonografi
risuonava per le vie e all'interno dei cafés, delle brasserie, dei bistrot in
un gorgogliare di voci, risate, scalpiccii, abbracci.
I decenni a
cavallo tra i due secoli vedevano gli spazi pubblici parigini divenire spazi di
sosta: la meditazione passava dall'interno all'esterno dell'individuo seduto su
una sedia con un bicchiere di assenzio in mano. Questo paesaggio urbano di
inizio Novecento sembra disvelare il segreto di Parigi narrato da Balthus: la Ville
Lumière rinnovata e riqualificata è l’unione, architettonica e sociale, di
villaggi (gli arrondissements) e boulevards metropolitani fino agli anni ’50,
quando lo straniamento d’oltreoceano invade quella che si credeva essere l’imperturbabile
capitale.
Assistiamo a questi
mutamenti frenetici e roboanti attraverso gli occhi di Colette. Stesa su quella
che lei stessa chiama la zattera, il divano-letto che all’occorrenza veniva spostato
verso l’unica finestra della sua camera nell’appartamento dove ha trascorso gli
ultimi dieci anni della sua vita al Palais-Royal, Colette osserva il passeggio
parigino. Come un flâneur d’altri tempi, dall’alto della sua camera da
letto, il suo sguardo si posa sulla piazza gremita, la stessa che nel 1966 per
volere della sua unica figlia verrà nominata Place Colette. Maestosa nella sua
austerità, riecheggiante dell’onnipotenza del Cardinale Richelieu, la piazza è
il palcoscenico di una teatralità ormai dimentica dei fasti della gloriosa
belle époque, nel proscenio si lavano rigagnoli di sangue della Seconda guerra
mondiale. Il tempo sta subendo un’ulteriore accelerazione, Colette ne è
spettatrice passiva. Costretta in una stanza dal clima afoso per proteggere le
ossa dall’artrite, le pareti illuminate dalla luce di un paralume ceruleo,
Colette scrive il suo ultimo libro, Le fanal bleu, circondata da ninnoli
venati da seducente malinconia. Significativi sono gli incontri narrati e non
gli accadimenti. Le persone e non le cose. Il suo attaccamento passionale e a
tratti morboso per l’umana compagnia la porta ad essere sempre in ascolto,
sempre in osservazione, soggetto e oggetto al tempo stesso di scoperta ed
esplorazione.
Donna di
lettere e di cultura, figura centrale anche negli ultimi anni della sua vita,
Colette non smette di osservare il mondo, trafitta dall’inesorabile
scorrere del tempo. Lo accoglie, allo stesso modo di come accoglie i visitatori
che accompagneranno il periodo conclusivo della sua esistenza.
Alla luce del paralume, affacciata alla finestra della sua camera, Colette ripercorre la sua vita non con nostalgia ma con dinamismo, come suggeriscono le ultime righe de Le fanal bleu. Incontri e storie che vengono a galla, momenti che si intrecciano tra loro costituendo la più autentica delle mappature autobiografiche che uno scrittore possa fare di se stesso, esprimendo con grande forza e vigore il ruolo della scrittura quale depositaria della memoria, talismano per superare gli anni.
Alla vigilia
del suo ottantunesimo compleanno Colette ha quasi smesso di scrivere, le poche
righe che riesce a mettere su carta sono quasi indecifrabili. Resta in silenzio
per periodi sempre più lunghi, sta perdendo la memoria. I dolori uniti alla
sordità creano un alone di isolamento e solitudine attorno a lei dal quale riesce,
talvolta, a riemergere grazie alle cure e alle attenzioni di Maurice. In uno
degli ultimi messaggi che ha registrato per il pubblico in seguito all’uscita
del film Il grano in erba, a gennaio del 1954, tratto dal suo omonimo romanzo
per la regia di Claude Autant-Lara, Colette lascia trasparire, ancora una
volta, la sua forza e il suo attaccamento alla vita: “In tutta la mia esistenza
ho studiato la fioritura più che ogni altra manifestazione di vita. È qui per
me che sta il dramma più essenziale, non nella morte, che non è altro che una
banale sconfitta”.
La fioritura ci riporta al giardino della sua infanzia nel piccolo borgo del comune di Yonne, Saint-Sauveur in Puisaye. Nell’immagine della fioritura è da ravvisare l’origine di quello che la stessa Colette chiama il suo alfabeto narrativo, all’ombra della madre Sido. È dal giardino di Saint-Sauveur in Puisaye e dalle mani operose di Sido che dobbiamo cominciare.
Che strana creatura Sido! Emancipata prima che il termine stesso diventasse un vocabolo tra l’alta borghesia parigina. Artefice inconsapevole della parola magnificata della figlia, Sido è colei che trova il modo di vivere “il suo tempo migliore d’indipendenza prima che i più mattinieri avessero aperto le persiane”. Selvatica trasformista, crudele e al tempo stesso orgogliosa della sua crudeltà, Sido declassa il matrimonio, proprio lei che ha assaggiato ben due esperienze coniugali a dir poco contrastanti tra loro. Solenne e austera, nella sua statuaria imponenza ammiriamo Sido, incarnazione della Madre, mentre si erge regina del regno vegetale, tra fiori vermigli, boccioli dai petali magenta, evanescenze porpora e corallo, stretta nel ritratto paesaggistico impressionista dell’opulenta e corposa Borgogna.
Perché è tra la
natura che Sido trova la sua collocazione identitaria. Spogliata dalle
necessità e dagli obblighi dei lavori domestici, Sido recupera il suo equilibrio
nel giardino. È proprio lì che Sido “entra”, abbandonando le mura domestiche e
la loro sdolcinata friabilità famigliare, per vestire gli abiti dimessi da
lavoratore incallito e affondare le mani grevi nella terra gelata. Nel suo
regno Sido ritrova se stessa, si sente a suo agio. Mentre svanisce ogni
preoccupazione, Sido si prende cura delle sue rose, le guarda negli occhi
sollevandole in quello strano modo che Colette definisce “par le menton pour
les regarder en plein visage”.
Le mani della
Madre, callose, ruvide, possenti, scavano dei solchi nella carne di Colette,
figlia e bambina, per tracciare la linea di demarcazione tra lei e la genitrice,
come il giardino delimita l’esistenza di Sido. E se all’interno del giardino
non è possibile entrare se non autorizzati dalla Madre, allo stesso modo il
raggio d’azione di Colette è circoscritto dalle volontà della stessa Sido.
Si dipana
un’atmosfera meravigliosamente eccitante, dove la maniacale attenzione ai
movimenti del corpo della Madre diventano per Colette la ricerca, incessante e
frustrante, del contatto con il mondo materno. Un contatto che non trova
accoglienza, un grido che non viene ascoltato.
Nell’animo di
Sido è racchiusa la dicotomia umana tra etica e desiderio, tra sentimento e indifferenza:
la sovrana del regno vegetale apre la sua casa ai gatti randagi, ai vagabondi e
alle serve incinte ma è anche colei che vive senza amore e senza pecca “curando
scialle e mortaio con mani sentimentali”.
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