La scrittura del non scritto. Appunti sul cinema di Marguerite Duras
«Il y aurait
une écriture du non-écrit». Con la frammentazione della scrittura, la parola
sperimentata da Marguerite Duras viene racchiusa entro gli argini della
solitudine, crivellata dal pallore semantico che più tardi diverrà ricerca
estatica di una lingua nuova, riflesso di un sentire mutato nel corpo e
nell'anima.
«Fu un amore
violento, molto erotico, più forte di me, per la prima volta. Ebbi persino
voglia di uccidermi, e questo cambiò il mio modo stesso di fare letteratura: fu
come scoprire i vuoti che avevo dentro, e trovare il coraggio di dirli. La
donna di Moderato Cantabile e quella di Hiroshima mon amour, ero
io: esausta di quella passione che, non potendo raccontare, decisi di
scrivere».
L'amore
violento di cui parla Duras si consuma con Gérard Jarlot nel 1957. Non è il
primo, Gérard. Ma, forse, è colui che per primo si è nutrito,
inconsapevolmente, delle mancanze di Duras. La scomparsa della madre, avvenuta
proprio nel '57, incide dei solchi nella fragilità di Duras la cui vita, da
sempre, rasenta il limite delle esperienze possibili. Marguerite si abbandona a
Gérard, a quell'amore foriero di vuoti e silenzi, quell'amore affamato e mai
sazio. Marguerite si abbandona a quel desiderio luminoso e al tempo stesso
inafferrabile perché la sua luce è una rivelazione appena percepita, colta nel
momento dell'esplosione e poi sottratta senza possibilità di essere gustata e
vissuta nella sua pienezza. Quell'amore tormentato per Jarlot, che ritroveremo
anche nell'ultima Duras con Yann Andréa, è alla base della spinta verso la
parola svuotata, scarnificata, prosciugata. Si tratta della parola
cinematografica che si legge nell'abbandono del suono e dell'immagine, nel
passaggio dal «profondeur du mal à la profondeur du bleu».
In quella che
Laura Graziano definisce la «sintassi della sottrazione», rintracciamo la
potenza della rappresentazione filmica di Marguerite Duras.
Già da tempo il
teatro offre a Duras il palcoscenico perfetto per la sperimentazione
linguistica in nome di una scrittura libera dai classici vincoli narrativi.
Tuttavia, è con il cinema, a partire dagli anni Cinquanta, che Marguerite Duras
indaga una nuova forma di linguaggio.
Se con Hiroshima mon amour (film di Alain Resnais, sceneggiatura e soggetto di Duras del
1959), Une aussi longue absence (film di Henri Colpi, sceneggiatura e
dialoghi scritti dalla stessa Duras insieme all'amante Gérard Jarlot nel 1961)
Duras protende verso il cinema, sarà con la direzione dei film Détruire,
dit-elle (1969), La Femme du Gange (1974), India Song (1975)
e Agatha (1981) che Duras circoscriverà la geografia dell'assenza:
diafana sarà la parola che lascia intravedere, talvolta solo apparentemente,
ciò che sta dietro.
La
trasposizione cinematografica del testo durassiano gioca sui vuoti narrativi già
rintracciabili in Moderato cantabile. Portato sul grande schermo nel
1961 da Peter Brook, il romanzo presenta quegli slanci emotivi frutto di una
profonda riflessione sul rapporto tra dialoghi e narrazione, tra presenze e
assenze, tra esposizione e interiorizzazione.
Attraverso
l'occhio della macchina da presa, la traduzione del testo durassiano sullo
scherzo non farà altro che uccidere un tipo di cinema che Duras stessa
definisce solo «vanità e inseguimento del vento», creato appositamente per gli
«spettatori ordinari». Il disprezzo di Duras per la trasposizione filmica di
alcuni suoi scritti è conosciuto e lei non tenta di nasconderlo. Assumere le
vesti di regista, lei che non aveva alcuna formazione come cineasta, diventa
l'unico modo per fare «un altro cinema», diventa il gesto di affronto a un tipo
di cinematografia che risponde a grette regole di mercato e che si rivolge a
quelli che Duras considera gli «spettatori al chilogrammo».
Dopo gli anni dell'amore
distruttivo con Gérard Jarlot, Duras è totalmente travolta dal legame che si
instaura con la macchina da presa. È qui che la comunicazione si dissolve: bagliori
metasemantici dislocati in un quadro dove tracce linguistiche e psicologiche
sono concatenate tra loro da una scrittura immanente, incontrollabile e
voluttuosa. Il movimento di Duras è dentro al cinema forte è la
compenetrazione tra testo e immagine, scrittura e voce. Altrettanto forte sarà il legame emotivo con i
luoghi di estasi creativa, come la casa di Neauphle-le-Château, dove l'altrove
della lingua trova corrispondenza nell'immaginazione. Si parla, a tal
proposito, di "cinema assoluto", dove il lettore-spettatore è
chiamato a sostituire ciò che non vede con ciò che immagina.
La scrittura cinematografica
di Duras si sviluppa nel taglio delle scene, nei primi piani, nelle
inquadrature, nella profondità di campo e nel ritmo lento. Continuamente
rinnovata e interrogata, la scrittura di Duras per il cinema affonda nell'esperienza
vissuta da qui la parola assurge ora a immagine ora a suono in un continuo
rapporto dialettico.
La scenografia
del desiderio, la metafora della fotografia, l'onnipresenza dello sguardo e del
mare sono elementi della cinematografia durassiana riportati di recente sullo
schermo da Benoît Jacquot (che proprio con Duras ha mosso i primi passi dietro
la macchina da presa). È grazie a lui che riprende vita Suzanna Andler,
film tratto dall'omonimo romanzo di Marguerite Duras del 1975, con Charlotte
Gainsbourg nei panni di Suzanna.
Benoît Jacquot
deve molto a Duras. Lo dice ricordando i loro primi incontri negli anni
Settanta, quando Duras era già un'icona mentre lui un ventenne che sognava di
fare cinema. Lo dice, Benoît Jacquot, tra la commozione dei ricordi e la
sincerità che unisce chi ha saputo guardare Marguerite Duras oltre la sua
stessa caricatura.
Con Suzanna
Andler, Benoît Jacquot non riporta sullo schermo solo il racconto di una
donna ma vi traspone anche la storia di un luogo muovendo dalle "acque oceaniche
di Duras". Tra le pieghe della sofferenza durassiana dell'ignoto, filtrano
quei dolori narrati anche in Hiroshima mon amour, riflessi di racconti
collettivi prima ancora che privati (a tal proposito, Godard, nel '59, dirà, in
seguito alla proiezione di questo film: «Quel che subito colpisce è che non
sembra avere nessun riferimento cinematografico. Possiamo dire che Hiroshima è
Faulkner più Stravinskij, ma non possiamo dire che è questo più quel cineasta»).
In Hiroshima si tratta di una tragedia silente, corroborata dalle variazioni
musicali di Giovanni Fusco, che insiste nella frammentazione della parola e che
proprio in tale frammentazione si riconosce, quella tragedia permeata da una
sofferenza che non è del singolo ma diventa universale come il dolore
interpretato da Gainsbourg in Suzanna Andler che si stratifica sulle
menzogne e sui non-detti trasformando la sua storia personale in una storia,
come insegna Duras, «che passa attraverso la sua assenza» trascendendo la
parola e realizzandosi proprio sui vuoti generati dalla scrittura perché
scrivere (un libro, una sceneggiatura) è anche questo, è «non parlare. Tacere.
Urlare silenziosamente».
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