giovedì 2 giugno 2011

Rileggendo Annie Ernaux: Non sono più uscita dalla mia notte


Ci sono libri che toccano corde talmente profonde del nostro io da non riuscire a comprenderle fino in fondo. Questo è uno di quei libri. Non sono più uscita dalla mia notte di Annie Ernaux si insinua nelle pieghe della memoria, là dove i ricordi si fanno opachi e il dolore sussurra, senza mai gridare. Ernaux ci accompagna in un viaggio silenzioso, costellato di immagini frammentate, come polvere che si deposita su vecchie fotografie. Il linguaggio è asciutto, quasi chirurgico, eppure ogni parola sembra custodire un abisso di emozioni represse. Non c’è spazio per l’oblio: ogni pagina ci riporta al centro di quel vuoto che la malattia e la perdita scavano, lasciandoci senza fiato. La sua scrittura non offre consolazione, ma un confronto diretto con ciò che resta, con ciò che siamo quando il mondo intorno a noi crolla. E, alla fine, ci ritroviamo a guardare la nostra fragilità con occhi nuovi, ancora incerti, ma più consapevoli.


 “Alla fine dell’85 ho iniziato a raccontare la sua vita: con un senso di colpa, poiché avevo l'impressione di essere già entrata in un'epoca di cui lei non faceva più parte. Inoltre, ero dilaniata fra una realtà evocata nella scrittura in cui me immaginavo da giovane, appena entrata nel mondo, e quel presente fatto di visite in ospedale che mi riportava al suo declino inesorabile. 

Alla morte di mia madre, ho stracciato quell'inizio di racconto e ne ho cominciato un altro che è stato pubblicato ne 1998: Une femme. Per tutto il periodo in cui ne completavo la stesura non ho mai riletto le pagine che ho redatto durante la sua malattia.

Era come se mi fossero precluse, vietate: avevo consegnato a esse la cronaca di quei mesi, di quei giorni, senza sapere che sarebbero stati gli ultimi della sua vita. L'inconsapevolezza del futuro — forse tipica di ogni scrittura, senz'altro tipica della mia — assumeva così un aspetto terribile. In un certo senso il diario di quelle visite mi aveva condotto verso la morte di mia madre”.


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