Ci
sono libri che toccano corde talmente profonde del nostro io da non riuscire a
comprenderle fino in fondo. Questo è uno di quei libri. Non sono più uscita
dalla mia notte di Annie Ernaux si insinua nelle pieghe della memoria, là dove
i ricordi si fanno opachi e il dolore sussurra, senza mai gridare. Ernaux ci
accompagna in un viaggio silenzioso, costellato di immagini frammentate, come
polvere che si deposita su vecchie fotografie. Il linguaggio è asciutto, quasi
chirurgico, eppure ogni parola sembra custodire un abisso di emozioni represse.
Non c’è spazio per l’oblio: ogni pagina ci riporta al centro di quel vuoto che
la malattia e la perdita scavano, lasciandoci senza fiato. La sua scrittura non
offre consolazione, ma un confronto diretto con ciò che resta, con ciò che
siamo quando il mondo intorno a noi crolla. E, alla fine, ci ritroviamo a
guardare la nostra fragilità con occhi nuovi, ancora incerti, ma più
consapevoli.
Alla morte di mia madre, ho stracciato quell'inizio di racconto e ne ho cominciato un altro che è stato pubblicato ne 1998: Une femme. Per tutto il periodo in cui ne completavo la stesura non ho mai riletto le pagine che ho redatto durante la sua malattia.
Era
come se mi fossero precluse, vietate: avevo consegnato a esse la cronaca di
quei mesi, di quei giorni, senza sapere che sarebbero stati gli ultimi della
sua vita. L'inconsapevolezza del futuro — forse tipica di ogni scrittura,
senz'altro tipica della mia — assumeva così un aspetto terribile. In un certo
senso il diario di quelle visite mi aveva condotto verso la morte di mia madre”.
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